C’è che la sinistra americana è "liberal". E liberal vuol dire proprio "liberale". Una parola, un concetto, una definizione a lungo neglette dalle nostre parti. Da noi i liberali sono considerati di destra, nonostante siano nati di sinistra. Dopo la Rivoluzione francese si sedevano a sinistra del sovrano, insieme con i borghesi, con il Terzo Stato. Poi sono successe molte cose, una per tutte l’avvento dell’ideologia socialista che ha scalzato i liberali dai banchi di sinistra e cancellato il partito whig in Inghilterra. Immuni dal marxismo, i liberal americani sono invece rimasti la sinistra politica.
Anche in America la parola "liberal" a volte è un insulto, ma solo se pronunciato dai conservatori più duri, dai cristiano-reazionari. I liberali americani sono quelli delle metropoli dell’Est, quelli di San Francisco, quelli che se la tirano, gli infatuati dalla cultura europea e i promotori dei diritti civili. I progressisti. Quelli di sinistra, insomma. O, se volete, i lettori del New Yorker, l’inimitabile settimanale di cultura, politica e letteratura fondato nel 1925 da Harold Ross, in combutta con il circolo letterario più snob della città, quello che si riuniva intorno a un tavolo dell’Algonquin.
Bene. Il New Yorker è da sempre il salotto più esclusivo della sinistra americana, oltre che la rivista più elegante e raffinata del pianeta. E’ la rappresentazione cartacea delle teorie sulla superiorità antropologica della sinistra. I redattori e i lettori del New Yorker sono coloro che Tom Wolfe immortalò nella definizione "radical chic". Quanto di più lontano possa esistere da un ranchero texano o da un tycoon padano.
Non solo. Il New Yorker, per la penna del suo cronista decano, Seymour Hersh, in questo anno e mezzo successivo all’11 settembre 2001, ha fatto vedere i sorci verdi a Casa Bianca, Cia, Fbi e Pentagono, svelando i piani presidenziali, rivelando le défaillance dell’intelligence, le lacune investigative, l’inefficienza dei generali. Sul numero del New Yorker di questa settimana compare un editoriale firmato dal direttore, David Remnick. Il titolo è inequivocabile: "Making a case", traducibile con "spiegare il perché". Remnick non risparmia niente a Bush, gli dice che ha fatto bene a raccontare le violazioni irachene, ma malissimo a non aver spiegato la necessità dell’uso della forza. La critica del New Yorker è, appunto, liberale: liquida come poco serie le teorie secondo cui Bush vuol fare la guerra "per il petrolio" o perché è un cowboy guerrafondaio oppure a causa della gang Cheney-Rumsfeld. Dire che la pace è meglio della guerra, scrive Remnick, non vuol dire niente. Ci sono domande più serie, continua il New Yorker, alle quali Bush non risponde: perché intervenire ora? perché in Iraq e non in Corea del Nord? C’è anche molta preoccupazione per i morti e sul dopo Saddam: sarà ucciso, arrestato o esiliato all’Elba? Che faremo poi dell’Iraq?
Remnick critica Bush per non aver dato risposte certe, ma aggiunge di averle trovate in un libro (di cui Il Foglio ha parlato spesso) scritto da Kenneth M. Pollack, "The Threatening Storm". Nel libro dell’ex analista di Bill Clinton ci sono le risposte, scrive il direttore del New Yorker. Così, da liberal di sinistra, conclude: "La storia non ci scuserà facilmente se decidessimo di non decidere, dobbiamo fare i conti con un leader totalitario e aggressivo che non solo vuole sviluppare armi di distruzione di massa ma vuole anche usarle. Se Saddam lasciasse o venisse spodestato sarebbe una fortuna inaspettata, e una sua improvvisa e saggia conversione al disarmo sarebbe quasi la stessa cosa. Non è male sognare. Ma se ci accorgiamo che questi sogni non si sono realizzati, tornare a inseguire le vuote strategie del containment è la scelta più pericolosa".
31 Gennaio 2003