Camillo di Christian RoccaRedazionalmente Corretto del 15 gennaio 2003

La
prima pagina di Repubblica (Rep.) di ieri, 14 gennaio, Giorno
XIV della Nuova Era Forte, Libera & Giusta, si apriva con
"Giustizia, altolà della Cassazione". Rep. dà
molto spazio alle parole del procuratore generale Francesco Favara.
La linea è perlomeno ondivaga, ventiquattr’ore dopo l’editoriale
di Giuseppe D’Avanzo (Davanpour) che aveva criticato l’oltranzismo
dei magistrati, la complicità oggettiva con il Cav. di
Francesco Saverio Borrelli e l’inutilità dell’inaugurazione
dell’anno giudiziario. Ieri, per la penna del medesimo Davanpour,
Rep. è tornata giustizialista. Ricevuta qualche telefonatina?
Davanpour costruisce il suo articolo di cronaca-commentata come
fosse un film. E spiega che mentre Favara parlava, i berluscones
non capivano che quello stava per mollare uno sganascione. L’unico
è il Cav: "Berlusconi, che è il più
furbo, capisce in un lampo che si mette male". Poi passa
un po’ di tempo e Davanpour dice che "ora ha capito anche
Marcello Pera. Le sopracciglia gli vanno su e giù che
sembrano pistoni". E Castelli? "Roberto Castelli, il
chief executive della Giustizia, non ha ancora capito. Infatti
continua a ridere…". Quattro colonne dopo ci arriva anche
il Guardasigilli: "A questo punto, anche Castelli capisce
e smette di ridere".
Gli altri articoli sul caso giustizia sono abbastanza schizofrenici,
spiegano che il Cav. è incazzato nero per il discorso
del procuratore generale. Liana Milella scrive che quando Favara
"punta il dito sul rispetto dei giudici" il premier
"mostra stanchezza". Barbara Jerkov racconta che "la
verità è che la lunga e complessa relazione del
procuratore generale della Cassazione, a Silvio Berlusconi non
è proprio piaciuta".
E’ così? L’articolo di Claudio Tito, nelle stesse pagine,
dice il contrario: "Nonostante i timori della vigilia, l’apertura
dell’anno giudiziario non ha provocato fibrillazioni all’interno
del governo. La relazione infatti ha riscosso, almeno nelle dichiarazioni
ufficiali, i consensi quasi unanimi dell’esecutivo. A partire
da Silvio Berlusconi".
In prima pagina c’è anche un’inchiestona del solito Carlo
Bonini, senza Davanpour stavolta, ma con Anais Ginori (con Conc.
in maternità, si dice che finalmente le saranno concessi
grandi spazi).
L’articolo riempie due pagine intere. La coppia avrebbe scoperto
"una pista italiana" nell’assassinio di Ahmed Massud.
Almeno così dice il titolo. Forse i due passaporti falsi
utilizzati dagli assassini del comandante afghano sono stati
fabbricati in Italia. Ma forse no, visto che gli stessi Bonini&Ginori
scrivono che "una fonte dell’Anterrorismo italiana"
si limita a ritenerla "un’ipotesi investigativa che ci affascina".
Poi sono i due stessi segugi a smentire il proprio scoop: "Certo,
resta un’ipotesi. Anche perché i due passaporti facevano
parte di un lotto di 19 mila ritrovato in Belgio". Avete
letto bene: diciannovemila.
L’altra (diciamo) notizia contenuta nella sterminata inchiesta
è nelle primissime righe: "In fondo è giusto
dire che tutto cominciò il 9 settembre 2001. Con l’omicidio
del comandante afgano Ahmad Shah Massud". Alla fine dell’articolo,
tredici colonne dopo, la conclusione è affidata a due
diverse fonti, ovviamente segretissime: una dice che "l’omicidio
di Massud non sembra avere alcuna connessione con il piano dell’11
settembre"; e l’altra "di più, insiste che non
vi sia alcun legame tra l’uccisione di Massud e gli attentati
dell’11 settembre". Non c’è nessuna connessione?
Dài, Bonini&Ginori ribattete, difendete il vostro
scoop. La risposta dei due segugi è nella riga seguente:
"E in questo, probabilmente, dice una parte di verità".
Questo vuol dire che l’inchiesta di Rep. dice una parte di stronzate.
Una, poi, è colossale. I due segugi raccontano la scena
dell’omicidio di Massoud, avvenuta appunto il 9 settembre, e
scrivono che "la sua morte resterà un segreto fino
al 15 settembre". Eppure l’11 settembre 2001, sulla prima
pagina di un piccolo quotidiano di opinione si poteva leggere
questo titolo: "Morto Massoud".
Incredibile l’articolo di pagina 18 su Sergio Cofferati, specie
perché firmato da un giornalista solitamente misurato,
Goffredo De Marchis. E’ un inno al leader della "nuova sinistra"
così sperticato che Red. Corr. sospetta sia stato editato
da Conc.
Seguono estratti: "Di notte leader di mille assemblee, di
giorno impiegato della Pirelli"; "Alle 8,15 s’infila
in ufficio e riemerge alle 17.45 per smettere i panni dell’anonimo
Clark Kent dell’ufficio studi per diventare il Superman dei girotondi";
"Quando lavora stacca il telefonino"; "A casa
ci sta poco o niente. Quando ci capita ottimizza i tempi. L’altra
sera lo hanno chiamato. ‘Disturbo?’. ‘No, figurati, mi stavo
stirando i pantaloni’ ".
(continua)

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