Milano. Policy Review è la brillante rivista della Hoover Foundation, il pensatoio neoconservative della Stanford University. I lettori ricorderanno come proprio su Policy Review, Il Foglio scoprì e poi pubblicò il famoso saggio di Robert Kagan sui rapporti transatlantici. Il numero appena uscito in libreria (April & May 2003 – n.118) si apre con un lungo saggio di Stanley Kurtz, studioso all’Hoover su temi legati ai diritti civili, ed editorialista del Wall Street Journal, del Weekly Standard e della National Review. Il saggio di Kurtz indaga sul tema più di moda nella Washington dei tempi di Bush, cioè sulla nuova responsabilità americana dopo l’11 settembre. Il titolo è: "Democratic imperialism: a blueprint", un progetto per l’imperialismo democratico.
"Nonostante gli Stati Uniti siano la principale potenza mondiale scrive Kurtz noi non siamo ancora un impero". Poco importa che più di una volta ci siano stati interventi all’estero o che sia stata esercitata una grande influenza internazionale, il punto è che l’America non ha mai usato il suo potere militare per assicurarsi un controllo diretto e continuativo degli affari interni di Stati stranieri. L’America non ha mai voluto fondare un impero, tanto è vero che, solo recentemente, è stata accusata di aver abbandonato l’Afghanistan quando i sovietici lasciarono il paese. "Oggi scrive Kurtz l’Afghanistan può essere il primo passo verso un nuovo impero americano".
"La questione irachena ha rafforzato il punto. Nel dopoguerra sostiene Kurtz potrebbe essere sufficiente instaurare un’autocrazia amichevole ritirare il grosso delle forze armate ed esercitare l’influenza da Washington. C’è, però, qualcuno che invoca qualcos’altro. Dentro l’Amministrazione, gente come il vice segretario alla Difesa Paul Wolfowitz, intelletuali della politica come Richard Perle, e stimatissimi studiosi come Bernard Lewis, sostengono che soltanto una trasformazione democratica dell’Iraq, e poi di tutto il mondo arabo, possa provvedere a difenderci dal terrorismo e da un attacco nucleare. Con un importante discorso dello scorso febbraio, George W. Bush ha prestato la sua voce a questo coro. Senza mezzi termini, il presidente ha detto che ‘il mondo ha un chiaro interesse alla diffusione dei valori democratici’, perché ‘le nazioni libere non alimentano le ideologie omicide’. Il presidente ha ricordato gli esempi della democratizzazione in Giappone e Germania, guidata dagli americani nel secondo Dopoguerra, e ha rifiutato l’idea che le nazioni arabe siano incapaci di sostenere la democrazia. Quello che il presidente non ha detto, anche se era implicito, è che un così profondo cambiamento culturale richiede che l’America occupi in forze l’Iraq e gestisca il paese per gli anni a venire. Questa impresa di imperialismo democratico è compatibile con i nostri principi liberali? E anche se lo fosse, funzionerebbe? E’ possibile portare il liberalismo in una società che da così lungo tempo vive in contrasto con i valori dell’Occidente? Tutte queste domande sono state poste e hanno trovato risposta, sia in teoria sia in pratica, durante l’amministrazione dell’impero britannico in India. Tre grandi pensatori britannici, Edmund Burke, James Mill e John Stuart Mill, non hanno semplicemente riflettuto intorno all’imperialismo liberale, lo hanno vissuto".
Kurtz ricorda come Burke da un lato e i due Mill dall’altro abbiano fondato due concorrenti scuole di pensiero sull’impero britannico. Il colonialismo di Burke era conservatore, rispettoso delle tradizioni indigene e delle élite. I due Mill erano scettici sulle élite e sulle pratiche locali, erano determinati ad avviare una trasformazione democratica della società. Nessuno dei due approcci, spiega Stanley Kurtz, è stato in grado di funzionare indipendentemente dall’altro. Dunque se vogliamo davvero accettare l’onere imperiale in Iraq e oltre, dovremo studiare la saggezza e la follia dei Burke, dei Mill e dei loro discepoli: "Molto più che l’occupazione americana del Giappone nel secondo dopoguerra, l’esperienza britannica in India può essere il precedente chiave per portare la democrazia in un paese non democratico e non occidentale come l’Iraq".
Dall’India all’Iraq
osservarla come un modello di cosa non fare in Iraq. Ma l’esperienza dell’India sotto la legge inglese non è stata interamente negativa. Infatti, il movimento indiano che voleva liberare il paese dal dominio britannico fu un prodotto dell’influenza inglese. Soprattutto, l’eredità culturale inglese spiega perché l’India indipendente abbia preso la via democratica. Questo non vuol dire che l’emergere di una democrazia indiana sia una conseguenza involontaria del dominio imperiale britannico. A fronte di molti problemi e di conflitti imperiali, molti filoni della politica imperiale britannica volevano avviare l’India a un auto governo quasi democratico. Quando, infine, l’India ottenne l’indipendenza e la democrazia, in non piccola parte la dovette a queste politiche".
Il precedente giapponese, secondo Kurtz, funziona meno nel caso iracheno in quanto il Giappone era sostanzialmente già un paese moderno. A differenza dell’Iraq, il Giappone era un paese culturalmente omogeneo. "Gli sforzi americani di imporre una costituzione democratica in Giappone hanno raggiunto l’obiettivo perché si basavano su un insieme di prerequisiti economici, sociali e storici che mancano in Iraq. D’altro canto gli inglesi hanno trasformato un paese con nessuna tradizione democratica in una delle più compiute democrazie del mondo non occidentale.
Il gradualismo democratico
In che modo, dunque, l’Inghilterra ha portato la democrazia in India? Molto lentamente, è la cosa più importante da dire nonostante sia una risposta che gli americani non vorrebbero sentire. Ma c’è qualcos’altro che dobbiamo ricordare. Un autentico sviluppo democratico è lento (lezione facilmente dimenticata da una nazione che è stata democratica fin dalla sua origine). Fino al 1830, spiega Kurtz, la politica imperiale britannica in India era quella di interferire al minimo con il sistema sociale locale. Con i pochi soldati sul territorio e i pochissimi funzionari che governavano un paese molto popoloso, gli inglesi non avevano nessuna voglia di riformare radicalmente la società indiana. Molti degli amministratori britannici erano "orientalisti", nel senso che avevano fatto studi di cultura indiana e basavano la loro politica sulle élite indigene. James Mill, da discepolo del filosofo liberale Jeremy Bentham, diventò il leader dell’opposizione liberale e riformatrice agli orientalisti di Burke. Sono state le politiche liberali di alfabetizzazione a mettere le basi per il futuro indiano, moderno e democratico. Mentre gli orientalisti spingevano per rafforzare lo studio delle lingue indigene, i liberali erano determinati a creare una classe di indiani capaci di parlare inglese, anche perché si rendevano conto di avere pochi amministratori per un territorio così vasto come quello indiano. Cominciò a imporsi una classe di funzionari indiani anglicizzati che, a poco a poco, specie a partire dal 1880 iniziò a reclamare un ruolo più importante nell’amministrazione del paese. I liberali cominciarono a devolvere parte del potere ad assemblee rappresentative locali. Insomma, spiega Kurtz, "questi indiani anglicizzati sono diventati il cuore del movimento indipendentista indiano". Gli inglesi non mantennero le promesse e costrinsero gli indiani a una campagna pluridecennale di lotte per l’indipendenza. Gli amministratori liberali e riformatori, oltre che con il sistema educativo, contribuirono all’indipendenza indiana con la costruzione di un completo sistema di comunicazione e di trasporto, un efficiente servizio postale e telegrafico e una rete ferroviaria nazionale.
"Le infrastrutture sono servite ad aumentare l’efficienza dell’esercito britannico e il controllo amministrativo sul continente, ma hanno anche generato una forte coscienza nazionale tra gli indiani, che non avevano mai pensato a se stessi come membri di un’unica società. Grazie alla nuova rete di comunicazione, la classe dei burocrati indiani english educated ha raggiunto la consapevolezza di un’identità condivisa, dei propri valori e delle ingiustizie subite. Così è nata l’idea di uno Stato indiano moderno, indipendente e democratico". La lezione, secondo Kurtz, è evidente: un lento processo di educazione alle idee moderne e liberali ha tutta la potenzialità di trasformare una società non occidentale in una moderna democrazia. Gli indiani anglicizzati, ricorda Kurtz, erano soltanto l’1 o il 2 per cento della popolazione, eppure sono stati sufficienti a trasmettere le idee liberali. Quindi "la strada per la modernizzazione non è la trasformazione diretta del sistema sociale tradizionale, ma tentare di preparare un nuovo gruppo di riformatori".
Sono evidenti i problemi di uno scenario di questo tipo per il post Saddam. Intanto ci sono voluti più di cento anni dal momento in cui è iniziato il processo fino all’indipendenza e alla democrazia. In Iraq, ovvio, non abbiamo tutto questo tempo, visto che l’obiettivo americano è quello di liberare la società, abbastanza velocemente da fermare la crescita del terrorismo e delle ideologie anti occidentali. Ma è altrettanto ovvio che mentre gli inglesi fecero di tutto per ritardare l’indipendenza, gli americani oggi non hanno alcun interesse a ritardare il processo.
C’è anche un altro problema. Gli inglesi inventarono il nazionalismo indiano, mentre oggi, fin dalla Prima guerra mondiale, nel Medio Oriente c’è un forte sentimento arabo-nazionalista. Contro una reazione nazionalista araba c’è da sperare nel ruolo degli esuli. Gli iracheni che hanno vissuto per anni in Occidente potrebbero essere già una classe di cittadini moderni e liberali che partecipa al governo e alla riforma della società.
Dopo un’iniziale occupazione militare, gli occidentali potranno scegliere di esercitare un’influenza postbellica sulle élite del paese, sul modello degli orientalisti di Burke, qualcosa in meno della classica amministrazione imperiale. Questa scelta riuscirebbe a creare un Iraq stabile, ma non farebbe intravedere un futuro democratico del paese. Creare un’élite liberale e moderna in un paese dove non esiste, è un’opera difficile e necessita di molto tempo. D’altro canto le elezioni in un paese profondamente illiberale provocherebbero conflitti etnici, dittature islamiche e lo stesso rincorrersi di golpe militari che portarono al potere Saddam. Che fare dunque? "Un periodo di controllo quasi imperiale, quindi non democratico, potrebbe essere un prerequisito necessario per arrivare alla democrazia".
Un imperialismo liberale?
Il dibattito sull’amministrazione dell’Iraq del dopo Saddam vede da un parte gli idealisti democratizzatori e dall’altra i realisti. I realisti sono scettici sulle prospettive di cambiamento culturale nel mondo arabo e pensano che la democrazia creerebbe rivalità etniche e dispotismi. Gli idealisti pensano che vada la pena di correre il rischio, ché solo con un radicale cambiamento della cultura civile e politica si può chiudere per sempre l’era di regimi che ospitano, sponsorizzano e generano terrorismo. Solo scegliendo il proprio governo, e vivendo con le imperfette conseguenze delle proprie scelte, un popolo può imparare il significato e la necessità di un comportamente elettorale responsabile.
A fronte di questi due estremi c’è l’esperienza di John Stuart Mill, il quale dopo due decenni di leadership liberale all’interno della Compagnia delle Indie, ha argomentato (in Representative Government) la sua contrarietà a premature elezioni in società mancanti dei prerequisiti democratici. Mill, che fu criticato di aver tradito le sue convinzioni liberali, sosteneva la necessità di un colonialismo illuminato come strada maestra per una stabile liberalizzazione di società non civilizzate.
Certo, scrive Kurtz, parlare di impero è disagevole. Anche se è il più liberale possibile, e comunque benigno, in che modo un impero può essere considerato giusto? Anche l’imperialismo più moderato, come via per raggiungere nel più breve tempo possibile la democrazia, sarebbe visto come un’umiliazione. Ma, d’altra parte, sappiamo che dopo molti decenni di indipendenza in Iraq non c’è traccia di democrazia. A differenza dei colonialismi europei, quello americano in Iraq non sarebbe aggressivo, perché motivato e giustificato in chiave di autodifesa. "In questo caso, la vera analogia morale di un’occupazione dell’Iraq va fatta con la presenza americana in Giappone nel secondo dopoguerra, dove l’obiettivo difensivo era la democratizzazione e la demilitarizzazione del nemico sconfitto".
Per incoraggiare il processo di democratizzazione, scrive Kurtz nel suo lunghissimo saggio su Policy Review, una prolungata occupazione dell’Iraq sarebbe la politica giusta. C’è da chiedersi, però, se sarebbe una scelta saggia. E’ una domanda difficile: "In Iraq il processo sarà molto più lungo e difficile che in Giappone, dunque l’America dovrà schierare volontà e risorse per riuscire in un’impresa così stressante e impegnativa. Se gli esuli iracheni si dimostreranno democratizzatori inefficaci o se l’America troverà difficoltà a esercitare una durevole influenza senza far vedere che lo sta facendo, le possibilità di una reazione nazionalista araba o di una spaccatura interna americana diventeranno alte. Certamente una ragionevole risposta a questo scenario sarebbe il rifiuto di occupare il paese. Ma tentare l’impresa di un imperialismo democratico potrebbe essere la nostra migliore assicurazione contro la combinazione terrorismo & armi di distruzione di massa". La democrazia, chiude Kurtz, si sviluppa lentamente. L’espediente è incoraggiare esperimenti elettorali a livello locale mentre si continua a tenere il potere centrale. Il gradualismo non è un tradimento del principio democratico. Al contrario è un’intuizione che ci hanno tramandato i fondatori stessi del liberalismo".