Il New York Times, sia pur con autorevoli eccezioni tra i suoi opinionisti, è il giornale che più di ogni altro ha criticato la politica di George W. Bush sull’Iraq, tanto che quando si è capito che non sarebbe stato possibile ottenere il consenso delle Nazioni Unite, il giornale della 43esima strada s’è schierato contro la guerra in Iraq.
Ieri il primo editoriale del New York Times, quello che detta la linea ufficiale del giornale, si intitolava "alla ricerca delle armi irachene del terrore" e spiegava che "l’America non potrà dire di aver vinto in Iraq fino a quando non troverà le armi non convenzionali di Saddam che mancano all’appello". Sarà una sfida lunga e non facile, ma "nei prossimi giorni e nelle prossime settimane, dovremo fare in modo di assicurare che nessuno di questi arsenali passi a gruppi terroristici o lasci il paese attravero Stati confinanti come la Siria e l’Iran".
Il New York Times, dunque, spesso citato a sproposito qui da noi, è contrario alla guerra ma non ha mai messo in dubbio l’esistenza delle armi di Saddam. Non è difficile occultare questo tipo di armi, spiega il giornale. Si tratta di polvere, può essere trasportata nella tasca della camicia. I laboratori sono mobili, è sufficiente un furgone. E non va dimenticato che le frontiere con l’Iran (e con la Siria) sono di migliaia di chilometri. Secondo il New York Times, una volta liberato il paese sarà necessario trovare subito un’occupazione, un lavoro civile, agli scienziati di regime, altrimenti potrebbero essere tentati di vendere il proprio know how a chi può offrire di più, magari ai terroristi. Per fare tutto questo, conclude il New York Times, gli alleati dovranno coinvolgere le Nazioni Unite.
Il Washington Post, invece, pur essendo un giornale di grandi tradizioni liberal, è favorevole fin dall’inizio all’intervento. Ieri il primo editoriale, "fino alla liberazione", faceva il punto sui primi giorni di guerra e notava gli sforzi alleati di limitare al minimo le vittime civili (analisi che qui non ha fatto nessuno). Ma la cosa più importante, secondo il WP, è un’altra: i pacifisti di tutto il mondo, il blocco antiamericano creato da Francia e Russia e tutti coloro che hanno chiuso gli occhi di fronte alla minaccia di Saddam, dovrebbero aver visto gli iracheni "salutare i marines come liberatori".
Maureen Dowd, regina dell’opinionismo radical chic, ha usato la consueta cattiveria per descrivere sul New York Times il circolo di falchi dell’American Enterprise Institute che tutte le mattine si riunisce per un "black coffee briefing" sulla guerra. I cattivi reaganiani sono Richard Perle, Bill Kristol e Michael Ledeen. Quest’ultimo, sabato, ha scritto un editoriale sul New York Post citando una notizia di intelligence "comparsa mercoledì sul mio giornale italiano preferito, Il Foglio, pubblicato a Milano".
Thomas Friedman, sempre sul NYTimes, parla del "fronte occidentale" della guerra: "I francesi sostengono che da questa guerra avremo più terrorismo, un pericoloso precedente di guerra preventiva e vittime civili. Gli uomini di Bush dicono invece che sarà la miccia di una riforma del mondo arabo e una minaccia agli altri tiranni che sostengono i terroristi". Secondo Friedman, editorialista che piace molto ai liberal nostrani, è possibile che abbia ragione Bush, a patto che si ricostruisca l’Iraq.
I am Iraq
L’articolo più interessante è di Michael Ignatieff, sul magazine del New York Times. Si intitola: "I am Iraq". Ignatieff spiega ai suoi amici di sinistra che fin dai tempi del Vietnam ha imparato a non giudicare le persone in base alla compagnia. E’ favorevole all’intervento anche se non gli piace chi gli sta intorno: "Preferisco di gran lunga frequentare quelli che stanno dall’altra parte, ma credo che stiano sbagliando". A Ignatieff non piace niente della politica interna di Bush, e lo dice, "ma penso che abbia ragione quando dice che l’Iraq e il mondo staranno meglio con un Saddam disarmato anche, se necessario, con l’uso della forza". Conclude Ignatieff: "Proprio come ai tempi del Vietnam, il dibattito sull’Iraq è diventato un referendum sul potere americano. Quello che ciascuno di noi pensa su Saddam sembra interessare molto meno di che cosa pensiamo sull’America. Una posizione di questo tipo è ideologica e al tempo stesso narcisistica. Nei prossimi anni, le scelte non saranno su chi siamo o su chi sta con noi, né su cosa pensiamo dell’America. Le scelte riguarderanno quali rischi vale la pena correre quando la nostra sicurezza dipende da una risposta. La vera scelta sarà molto più difficile di quanti molti di noi abbiano mai immaginato".