Camillo di Christian RoccaI liberal di New York che detestano Bush ma non hanno un'idea alternativa

New York. Nove ore di convegno per capire dove sta andando l’America e per giungere alla conclusione che è tutta colpa di George W. Bush se gli Stati Uniti sono così odiati nel mondo. Gli intellettuali liberal della New York University e del Remarque Institute si sono dati appuntamento per tutta la giornata di sabato intorno a un tema affascinante: "What now?", e ora che succede?, un dibattito sul ruolo dell’America nel mondo. Con l’eccezione dell’ex ministro laburista israeliano Shlomo Ben Ami, che sembrava un falco di quelli tosti, gli oratori, professori, giornalisti, scienziati della poltica, esperti di Medio Oriente e di Europa, non hanno fatto altro che accusare Bush di ogni abominio possibile. La sua politica è pessima, la guerra sbagliata, è un cattivo presidente e l’idea di esportare la democrazia e i valori occidentali è roba da matti. Chi ci ha dato il compito di farlo? Nessuno si è sottratto a questa litania, condita da battute grevi sull’ignoranza dei politici repubblicani, sulla loro non conoscenza del mondo, sulla loro grettezza, sulla loro arroganza e così via. Nessuno si è sottratto al repertorio radical chic sulla superiorità antropologica della sinistra.
Se Bush era il bersaglio più facile, sotto sotto l’obiettivo principale è sembrato essere il movimento dei neoconservative, gli intellettuali già di sinistra e ora repubblicani che hanno fornito all’Amministrazione la base culturale della nuova politica estera post 11 settembre. Sul palco non c’erano, nonostante Tony Judt, uno degli organizzatori, abbia detto di averli invitati. Il più applaudito è stato Edward Said, professore della Columbia e gran sostenitore della causa palestinese. Secondo Said, la guerra in Iraq è stata "immorale", "illegale" e "costruita a tavolino dai neocon" per "imporre un impero basato sulla fede", una guerra che ha fatto diventare l’Iraq "un terreno di caccia per le corporation" e che consentirà a Israele di continuare a "opprimere sistematicamente i palestinesi". Said, non contraddetto, ha sostenuto che al-Jazeera e la stampa francese hanno raccontato la guerra molto meglio della Cnn e dei giornali americani, poi ha ironizzato sulla competenza di Bernard Lewis, sull’arroganza di Michael Ledeen, sull’ingenuità di Ian Buruma e sulla non ostilità di Ahmed Chalabi nei confronti di Israele. Samantha Power, fresca vincitrice di Pulitzer per il libro "A Problem from Hell: America and the Age of Genocide", ha spiegato che la situazione è ancora peggiore di quella descritta da Said, perché il prof. crede che il messianesimo di Bush sia una copertura per i loschi affari della sua gang, e invece non tiene conto della pericolosa "sincerità morale che muove l’Amministrazione".

Il fallimento, riconosciuto, dei catastrofisti
Al di là delle accuse e dei pregiudizi su Bush, il dibattito ha avuto un aspetto interessante. Quando Ben Ami ha spiegato che la situazione oggi è migliore rispetto a quella dell’anno scorso, perché Saddam è caduto, non ci sono più attentati quotidiani, c’è una nuova leadership palestinese e si ritorna a parlare di processo di pace, l’imbarazzo degli oratori è sembrato evidente. E non soltanto per il fallimento, correttamente riconosciuto, delle previsioni sulla guerra e sui disastri che non ci sono stati. Per i convegnisti, la nuova situazione "è solo apparentemente un successo". Robert Malley, ex assistente di Clinton nel processo di pace in Medio Oriente, ha detto che "niente è più pericoloso di una politica che a prima vista sembra giusta" e di una "risposta sbagliata a una domanda giusta". Samantha Power ha ammesso che se al potere ci fosse stato Bill Clinton probabilmente avrebbe fatto le stesse cose di Bush, ma "in a liberal way" e non con "l’approccio messianico" dei repubblicani. Una questione di etichetta e, di nuovo, di superiorità antropologica. Joshua Cohen, filosofo e teorico politico al Mit di Boston, ha invitato Bush a sostenere il presidente brasiliano Lula e il suo progetto "fame zero" piuttosto che fare le guerre. Secondo i prof. liberal, l’America dovrebbe ricercare accordi internazionali e aiutare economicamente il Medio Oriente. Niente di diverso di quanto fatto fin qui, e che non ha impedito l’11 settembre. Il punto è che i liberal cercano una spiegazione all’odio islamista nei loro confronti e credono sia da attribuire alle politiche degli Stati Uniti. Dall’altra parte, invece, c’è chi sostiene che i fondamentalisti odino gli americani in quanto tali. Diciamo per lo stesso motivo per cui i radical chic disprezzano i rozzi texani.

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