New York. Mica male il texano, ora lo riconoscono anche i liberal col sopracciglio alzato del New York Times. Accusato fino all’altro ieri di essere un incapace dottor Stranamore, se non di peggio, George W. Bush in 18 mesi ha fatto fuori un regime fascista in Afghanistan, tolto di mezzo il più sanguinario protagonista del disastro mediorientale, depotenziato il vecchio e compromesso Yasser Arafat, messo paura a sauditi, siriani e iraniani e, infine, ottenuto l’unanimità alle Nazioni Unite. Il risultato non è il mondo sottosopra, come era stato previsto da analisi dettate più dall’ideologia che dal ragionamento, ma la nascita di una nuova leadership a Ramallah e la ripresa dei colloqui israelo-palestinesi, chiave di volta per la pacificazione del Medio Oriente. Un anno e mezzo fa sembrava fantascienza, ora Ariel Sharon e Abu Mazen si sono già incontrati, e nei primi giorni di giugno, probabilmente in Giordania, Bush presiederà un summit tra Israele e Autorità palestinese per discutere sul processo di pace che porterà al pieno riconoscimento di due Stati sovrani. I dettagli del summit si conosceranno oggi, ma l’incontro dovrebbe avvenire alla fine del viaggio europeo di Bush prima in Russia, poi Polonia e infine in Francia, a Evian, per la riunione del G8 che si tiene tra il primo e il 3 di giugno.
Bush, oltre a presiedere il vertice israelo-palestinese, incontrerà separatamente i leader dei paesi arabi, Egitto, Giordania e Arabia Saudita, co-sponsor della road map insieme con Dipartimento di Stato, Onu ed Europa. Il documento, sia pure con 14 obiezioni, domenica è stato approvato dal governo israeliano. Il punto di contrasto reale, ammesso che i palestinesi riescano a fermare gli attacchi terroristici, è il solito: quello che gli arabi chiamano "il diritto al ritorno" dei palestinesi che lasciarono i territori cinquant’anni fa. Gli israeliani continuano a pensare che l’idea di cacciare centinaia di migliaia di coloni dalla futura Palestina e contemporaneamente chiedere il ritorno di milioni di palestinesi dentro Israele sia un modo come un altro per sabotare un accordo serio e duraturo.
In un colloquio con l’editorialista del New York Times, William Safire, Sharon ha detto di volere andare avanti per ottenere una pace che duri, ma ha confermato che non farà compromessi sulla sicurezza.
Il New York Times riconosce la sua Vision
Domenica è stato il New York Times, con il primo dei suoi editoriali non firmati, quelli cioè che danno la linea ufficiale del giornale, a riconoscere la "Mideast Vision" di Bush. Il quotidiano aveva criticato l’intervento in Iraq, temendo che fosse slegato da un impegno serio di pacificazione del conflitto israelo-palestinese. Ci possono essere tutte le road map che vogliamo, ha scritto il NY Times, ma non avranno possibilità di successo senza un coinvolgimento americano: "Il sogno di Bush di un Medio Oriente trasformato non porta da nessuna parte, fin quando il mondo arabo è ossessionato dalla penosa situazione dei palestinesi. Il Bush di due anni fa non era pronto, per ragioni politiche e pratiche, a fare nessuna mossa decisa. Ma ora le condizioni sono cambiate e Bush ha una grande visione, più ampia e più rischiosa di qualunque altra sognata dai suoi predecessori. Speriamo che abbia la volontà di perseguirla".
Bush il texano pare che questa volontà ce l’abbia, e non sembra turbato dalle critiche di chi ora gli chiede un impegno maggiore in Medio Oriente. Questo è il suo terreno, ed essere riuscito a portare i critici sulla sua stessa lunghezza d’onda, che è quella di ridisegnare la mappa del Medio Oriente per prevenire minacce terroristiche sul suolo americano, sembra uno strepitoso successo politico. Thomas Friedman, principe degli opinionisti liberal, domenica ha chiesto a Bush di dire all’Arabia Saudita la verità, e cioè che "il loro antimoderno e antipluralista tipo di Islam, il wahabismo, insieme con la ricchezza petrolifera, è diventato una forza destabilizzatrice nel mondo. E che finanziare moschee e scuole che promuovono la versione meno tollerante dell’Islam, sta educando i terroristi che bruciano sia le nostre che le loro case".
Martin Indyk, vicesegretario di Stato per gli affari mediorientali nelle Amministrazioni Clinton, in un’intervista a Salon di ieri, ha detto che Bush "in qualche modo è diventato come Clinton, che credeva che era comunque meglio tentare e fallire in un contesto pacificatore, piuttosto che non tentare per niente". Secondo Indyk, oggi analista della Brookings Institution, Bush potrebbe farcela perché "il contesto strategico è cambiato a causa della caduta di Saddam; per aver messo gli Stati che sponsorizzano il terrorismo, come l’Iran e la Siria, sulla difensiva; e per il rafforzamento di chi come Abu Mazen sostiene che non c’è una soluzione militare a questo conflitto, ma solo negoziale". Il texano non è così male.