Al direttore – Mi vedo costretto a rispondere all’attacco nei miei confronti, pubblicato sul Il Foglio di Sabato 24 maggio, pag. 2, riguardo al mio articolo pubblicato su Repubblica il 17 maggio. Userò toni civili:
1) Non è possibile mettere in dubbio l’autenticità del mio reportage sui sopravvissuti del Falun Gong a Kaigeng, in quanto ho realizzato anche un servizio filmato che testimonia ogni parte della nostra visita in quel Centro di Riabilitazione, andato in onda il giorno precedente sui telegiornali Rai. Peraltro anche il responsabile per l’Italia del Falun Gong, Alfredo Fava, in una e-mail inviatami il 23 maggio, ha ammesso che "il servizio sulla Rai era molto buono". Aggiungo inoltre che a Kaigeng non sono andato da solo, ma insieme alla troupe di una delle maggiori agenzie di stampa televisive internazionali, che richiedeva da oltre un anno di poter incontrare i sopravvissuti.
2) Il Centro si chiama Kaigeng o Kaifeng (e viene anche indicato con grafie ancora differenti) in quanto, cosa che evidentemente l’anonimo autore del pezzo ignora, la traslitterazione dei nomi cinesi viene dagli ideogrammi, e non è univoca. A seconda, per esempio, che si usi la trascrizione fonetica "pinyin", oppure il "Wade-Gilles" britannico o ancora "L’Epeo" francese. Valga come esempio, per tutti, quello di Mao, indicato sia come "Mao Tse-tung", che "Mao Zedong". Lo stesso discorso vale per il nome della madre, "He", oppure "Hao". In ogni modo, tutti i documenti forniti a me e all’agenzia di stampa internazionale citata, riportano il nome della persona come "He" Huijun. Per quanto riguarda il figlio-figlia della signora He, si tratta ovviamente di un mio errore di battitura, dovuto alla stanchezza di quei giorni a Pechino. Tanto è vero che nella versione originale nel mio computer si legge: "La madre ci mostra una fotografia di Chen da ragazz-A, prima che il fuoco l-O sfigurasse".
3) So bene che La signora He e la figlia non sono stati "ufficialmente" condannati a pene detentive, tanto è vero che si trovano in quello che io ho correttamente chiamato col suo nome: "Centro di Riabilitazione". So anche molto bene che, invece, il sopravvissuto ritenuto organizzatore della protesta, Wang Jing Dong, è stato condannato al carcere. Lo so perché quello stesso giorno siamo andati anche da lui, nel carcere di Zhengzhou, a un’ora di macchina da Kaigeng-Kaifeng. Non ho inserito la sua storia nel pezzo su Repubblica per mancanza di spazio, in compenso l’ho fatto in quello per la Rai. A ogni modo inviterei l’anonimo autore dell’articolo a trascorrere un po’ di tempo nel "Centro di Riabilitazione" di Kaigeng-Kaifeng, visto che secondo lui non è un carcere. Io non ci manderei mia nonna a passare la vecchiaia
4) Non è assolutamente vero che la signora He ha perso la vista. E nel filmato si vede molto bene mentre mostra la foto. Comunque non si capisce perché l’anonimo ritenga che un cieco non possa mostrare una fotografia di una persona cara, che tiene in un luogo preciso, come un armadietto o un portafoglio?
5) Il ritratto di Mao c’è dappertutto in Cina e soprattutto in molti luoghi pubblici (come appunto carceri o centri di riabilitazione, comunque li si voglia chiamare). E il ritratto (non ho mai parlato di poster) del leader del Falun Gong l’abbiamo visto in tanti. Mi aspetto che pubblichiate questa lettera. E che in futuro l’anonimo autore e voi tutti guardiate di più la televisione. Evitando così figuracce del genere.
Marco Lupis
Prendo atto delle parole di Marco Lupis, e gli credo specie quando scrive di aver incontrato una donna e averla scambiata per un uomo a causa di un errore di battitura. Il lavoro di corrispondente è tosto, mai quanto quello di corrispondente & recensore di Rep. Se non fossi recensore di Rep., infatti, risponderei come rispondono spesso alle smentite i giornalisti di Rep. (ma il modello è Augusto Minzolini): "Confermo quanto ho scritto". Non lo faccio, e riprendo atto. A New York, però, mi sono montato la testa. Qui, caro Lupis, c’è il caso di Jayson Blair, e ora ce ne sono anche altri di giornalisti che si sono inventati storie e luoghi dei loro servizi. Il New York Times, per quanto corresponsabile, lo ha ammesso e ha affidato un’inchiesta interna per chiedere scusa ai lettori. Perché mi sono montato la testa? Perché da buon recensore di Rep., mi sono autoconferito l’incarico di fare un’inchiesta interna, invece che risponderle già ora punto per punto, che poi c’è il fuso orario e devo ancora scrivere di Rumsfeld. La rimando, quindi, a una più lunga e dettagliata analisi del caso e della sua opera omnia come far east correspondent. Si prepari molte smentite. Ariprenderci atto, suo