New York. La libertà non sarà mai in pericolo in un paese dove un giudice si dimette per aver chiesto a una cittadina arabo-americana entrata in tribunale per contestare una contravvenzione se, per caso, fosse una terrorista. E’ successo due giorni fa a Tarrytown, nello Stato di New York. Lo stesso paese non rischierà mai di perdere i diritti civili se una legge antiterrorismo come il contestatissimo US Patriot Act viene sezionata e criticata da un dettagliato rapporto interno allo stesso ministero della Giustizia, e poi confermata da una corte federale. E’ successo l’altro ieri. E ieri, tanto per rafforzare la tesi, George Bush ha deciso per la prima volta nella storia degli Stati Uniti di vietare il racial profiling, cioè le indagini poliziesche focalizzate sulla razza. La notizia è del New York Times e, in soldoni, vuol dire che un poliziotto della narcotici non potrà più concentrarsi su un quartiere rispetto a un altro soltanto perché il primo è prevalentemente nero o ispanico. Di più. Nella decisione di Bush, scrive il New York Times, c’è una casistica di interventi non più permessi. Per esempio "un uomo che passa attraverso un metal detector che non segnala niente di sospetto, non potrà essere sottoposto a un ulteriore controllo soltanto perché di una etnia particolare". Ancora: "Se gli investigatori ricevessero una segnalazione che un uomo di una certa etnia comprerà un’arma illegale in una stazione, l’informazione non potrà essere usata per fermare nel terminal soltanto gli uomini di quella etnia".
Bush ha posto delle eccezioni legate alla lotta al terrorismo, e la cosa ha fatto infuriare le associazioni per i diritti degli arabi-americani. Ma, attenzione, non c’è nessuna legge speciale o chissà quale distorsione delle procedure. Soltanto cose ovvie, che agli occhi di un europeo risultano addirittura scontate. Per esempio: se ci fosse notizia che un gruppo di terroristi di una determinata etnia ha in mente di dirottare un aereo in California, agli investigatori californiani è consentito indagare pienamente sui passeggeri di quella specifica razza.
In America, a differenza dell’Italia dove quelli che gridano al pericolo per la democrazia vorrebbero vedere gli avversari in galera o come Ceausescu, si discute e ci si divide su come evitare l’abuso delle manette. C’è chi preferisce rischiare qualcosa in più piuttosto che sacrificare le libertà individuali e chi, al contrario, sostiene che per colpa di bin Laden qualche piccolo sacrificio bisogna pur farlo se si vuole garantire la sicurezza nazionale. All’ingrosso la sinistra sta da una parte e chi è al governo si ritrova dall’altra. C’è, ovvio, chi si batte con veemenza contro la politica sulla Homeland Security di Bush, ma perlopiù si discute senza accusare l’avversario di voler instaurare la dittatura. Joe Lieberman, che oggi sarebbe vicepresidente se Al Gore avesse sconfitto Bush, addirittura in Senato ha votato il Patriot Act, e lo rivendica con orgoglio. Oppure Michael Kinsley, intellettuale liberal, editorialista del Washington Post e fondatore della rivista Slate, ha spiegato come nonostante le violazioni dei diritti degli stranieri dopo l’11 settembre la libertà non è affatto in pericolo in America.
I giudici danno ragione all’Amministrazione
La decisione dell’altro ieri della Corte di appello di Washington lo conferma: il Dipartimento di Giustizia aveva il diritto di non comunicare i nomi degli immigrati arabi arrestati dopo l’undici settembre. Nei giorni scorsi un documentato rapporto redatto dall’ispettore generale del Dipartimento della Giustizia, quindi interno allo stesso ministero che vuole mantenere il segreto, aveva contestato le modalità di alcuni arresti, la detenzione preventiva e la decisione di non rendere noti i nomi dei sospettati. La Corte ha dato ragione a John Ashcroft, il ministro che sta già preparando un Patriot Act II, sostenendo che se avesse reso noti i nomi avrebbe fatto un favore ad al Qaida. Il Washington Post, con un editoriale dal titolo "La segretezza è indifendibile", ieri ha criticato la decisione. Tra l’altro questa non è la prima sentenza favorevole alle scelte dell’Amministrazione. Scrive il New York Times di ieri che anche un tribunale di Philadelphia aveva dato l’ok ad Ashcroft, mentre un’altra corte di Washington ha confermato che ai detenuti di Guantanamo non si può applicare la legge americana. A gennaio, invece, una corte della Virginia ha stabilito che in tempo di guerra un cittadino americano catturato in battaglia come "nemico combattente" può essere detenuto senza alcun accesso agli avvocati. Sono due gli americani in queste condizioni, Jose Padilla e Yaser Hamdi, mentre gli stranieri arrestati dopo il trauma dell’11 settembre sono 762, un numero alto ma non molto superiore a uno dei nostri tanto osannati blitz antimafia.