Camillo di Christian RoccaIl caso Nyt, il caso Rep

New York. Howell Raines e Gerald Boyd, direttore e vicedirettore, si sono dimessi dalla guida del New York Times, un mese dopo che il San Antonio Express-News ha svelato come Jayson Blair, pupillo di Raines e Boyd, avesse copiato, oltre che falsificato, un articolo dal quotidiano del Texas. Non sono bastate le due pagine e le 14 mila parole di scuse catartiche che Raines ha pubblicato quattro settimane fa sul giornale, né l’inchiesta interna che ha sezionato l’intera opera di Blair scoprendo altre 37 falsificazioni. Raines, un tipo tosto che in redazione era visto come una specie di dittatore, ha dovuto cedere. Al suo posto è stato richiamato Joseph Lelyveld, il predecessore, che guiderà il Times fino alla nomina di un nuovo executive editor che potrebbe essere Bill Keller, equilibrato opinionista che nel 2001 perse il ballottaggio con Raines.
Raines, che solo un anno fece vincere al Times sette premi Pulitzer, non si è dimesso perché un suo cronista inventava le storie. Può capitare e non è necessariamente colpa del direttore se c’è un imbroglione in redazione. Raines è stato costretto a lasciare la poltrona giornalistica più ambita del mondo per il cover up, per l’insabbiamento, che lui e il suo vice Boyd per oltre un anno hanno attuato nei confronti delle molte segnalazioni ricevute sulla scarsa professionalità di Jayson Blair. E’ la solita storia americana, già vista con Monica Lewinsky e con il caso Watergate. Bill Clinton non è stato messo sotto accusa per aver fatto sesso con una stagista, né Richard Nixon si è dimesso per la sua mania di registrare qualsiasi cosa, il problema è il cover up.
La media di smentite e di precisazioni sugli articoli di Blair era altissima, più di una volta era stato colto in flagrante e addirittura gli fu imposto un periodo di riposo. Nell’aprile del 2002, Jonathan Landman, capo della Metro Section, scrisse questa mail ai vertici del giornale: "We have to stop Jayson from writing for the Times. Right Now". Blair non è stato fermato, anzi inviato a seguire casi importanti come la vicenda della soldatessa rapita e poi liberata in Iraq e la storia del cecchino di Washington. Blair ha continuato a fare falsi scoop, fino a quando una giornalista del San Antonio Express, che conosceva bene Blair in quanto erano stati insieme stagisti al New York Times, s’è accorta che il suo ex compagno le aveva copiato un articolo, spacciandolo come originale. A quel punto, con l’accusa esplicita di un altro giornale, Raines e Boyd hanno chiesto a Blair di dimettersi e non si sono limitati a una semplice correzione. Il New York Times è il New York Times e anche quando sbaglia o viene colto in fallo deve uscirne alla grande, creando un caso gigantesco per poi ripartire più forte di prima. Il caso è diventato enorme, ma Raines non è riuscito a gestirlo. La redazione è imbufalita con lui e da settimane si parla di "teste che sarebbero rotolate". Era certo che sarebbe finito così, nonostante il disinformato capo del soviet del Corriere abbia detto che De Bortoli è stato costretto a dimettersi per aver schierato il giornale contro la guerra, così come il direttore del NY Times, pacifista anch’egli ma saldo al suo posto.
Qualche giorno fa si è dimesso un altro grande inviato del Times, Rick Bragg, pupillo del direttore, perché accusato di aver firmato un articolo senza essere andato sul posto (sul posto c’era andato un ragazzino cui Bragg aveva affidato il compito). Ora di mira c’è l’opinionista radical chic Maureen Dowd, colpevole di aver attribuito a Bush una frase che Bush non ha pronunciato.
Blair è afroamericano, così come Boyd, ed è stato assunto con la affirmative action che favorisce le minoranze. Raines e Boyd non volevano licenziare un ragazzo di colore da una redazione wasp o ebraica. Raines, poi, è un liberal dell’Alabama e come tutti i liberal del Sud ha il senso di colpa per la segregazione dei black people (ha vinto un Pulitzer per la storia della sua tata di colore).

La curiosa coincidenza col caso Lupis
E’ curioso come tutto questo sia accaduto nei giorni del caso Lupis/Repubblica. Marco Lupis ha inventato una storia dalla Cina e Il Foglio lo ha documentato, ma il giornale di Ezio Mauro ha fatto finta di niente e non ha pubblicato neanche una riga di correzione. Lupis continua a scrivere come se non fosse successo niente, e al Foglio arrivano numerose segnalazioni (vedi lettera nel colonnino di fianco) di altri articoli artefatti e di altri cover up della direzione di Repubblica. E non solo su Lupis. Ma qui, come per il NY Times, il problema non è questo o quel giornalista. Il caso è Repubblica. Il Guardian ieri ha tolto dall’archivio on line un articolo falso su certe dichiarazioni di Paul Wolfowitz, Repubblica invece per due giorni lo ha accusato di una frase che Vanity Fair erroneamente gli ha attribuito, come dimostra la trascrizione integrale dell’intervista ripresa da tutti i giornali americani. Ma il giornalismo americano non è al sapor di vongola.

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