Camillo di Christian RoccaAlbright su Foreign Policy

Sul numero di settembre/ottobre di Foreign Policy, la vivace rivista liberal diretta da Moisés Naím, che si troverà nelle edicole americane dal 2 di settembre, comparirà un saggio di Madeleine Albright, già Segretario di Stato di Clinton ed ex ambasciatrice americana all’Onu. Il saggio è sul rapporto tra Usa e Nazioni Unite. Il tema è caldo. Da mesi c’è in atto una discussione politica e accademica sul ruolo e l’efficacia delle Nazioni Unite. La stessa Albright è firmataria, con Emma Bonino e altre personalità internazionali, di un appello per la creazione di una Organizzazione mondiale delle democrazie, i cui primi passi sono già stati avviati.
Foreign Policy presenta l’articolo con un paradosso: "L’Onu è burocratica, inefficace, non democratica, antiamericana e dopo il dibattito sull’uso della forza in Iraq, alcuni critici potrebbero aggiungere inutile alla lista degli aggettivi per descrivere le Nazioni Unite", ma allora perché l’Amministrazione Bush, prima della guerra e dopo la vittoria in Iraq, ha cercato di ottenere dal Palazzo di Vetro approvazione e consenso?.
Secondo la Albright una ragione c’è: per un "solo" miliardo e 250 milioni di dollari l’anno, più o meno quello che il Pentagono spende in 32 ore, le Nazioni Unite restano pur sempre il miglior investimento che si possa fare per fermare l’Aids e la Sars, per sfamare i poveri, aiutare i rifugiati, combattere il crimine globale e la diffusione delle armi nucleari. Intanto, scrive la Albright, è un falso mito sostenere che le relazioni tra gli Stati Uniti e l’Onu siano al livello più basso da sempre. Nel 1952, ricorda l’ex ambasciatrice, il senatore Joseph McCarthy chiedeva lealtà al proprio paese per i cittadini americani impiegati al Palazzo di Vetro. Negli anni 70 e 80, gli ambasciatori Daniel P. Moynihan (democratico ma neocon) e Jeane Kirpatrick (reaganiana) si distinsero per feroci battaglie contro l’antisemitismo e il marxismo crescente nell’Assemblea.
Il punto più basso, ricorda la Albright, fu quando nel 1975 l’Onu approvò una risoluzione che metteva il sionismo sullo stesso piano del razzismo. Negli anni 90, quando il capo dei repubblicani era Newt Gingrich e alla Casa Bianca c’era Clinton, gli Stati Uniti si rifiutarono di pagare la propria quota. Ora, sostiene la Albright, sembrerà strano ma gli interessi americani e l’agenda dell’Onu convergono in molti casi. Non solo nella lotta al terrorismo, ma anche nell’avanzamento della democrazia nel mondo: "Nonostante lo Statuto delle Nazioni Unite non dica niente sull’importanza dei governi eletti, le missioni Onu finanziano transizioni democratiche, monitorizziano elezioni e promuovo istituzioni libere. Lo statuto proibisce esplicitamente interventi in affari interni di altri Stati (escluse le azioni di enforcement), ma l’Alto commissariato per i diritti umani, creato nel 1993 su richiesta americana, esiste unicamente per spingere gli Stati a fare la cosa giusta per il proprio popolo".
La parte più interessante del saggio della Albright è sulla dottrina del primo colpo (first strike) elaborata dall’Amministrazione Bush. Secondo l’ex segretario di Stato, che ricorda le decine di casi in cui storicamente gli Stati Uniti sono intervenuti per prevenire un pericolo imminente (dalle azioni durante la Guerra fredda fino ai bombardamenti clintoniani in Afghanistan, Iraq e Sudan), "il mistero non è su cosa l’Amministrazione Bush ha elaborato, ma perché abbia scelto di creare una discussione globale su quella che è sempre stata una opzione residuale, facendola diventare una dottrina altamente pubblicizzata. In realtà ­ spiega la Albright ­ nessun presidente Usa riconoscerebbe un trattato internazionale che impedisse azioni necessarie a prevenire un imminente attacco agli Stati Uniti".
L’America, scrive Albright, non si è messa fuori legge né ha violato la Carta Onu: "Fin qui l’Amministrazione sta viaggiando sulla strada diplomatica".