Questo documento che Il Foglio pubblica integralmente è stato presentato l’8 di agosto, prima dell’attentato contro la sede Onu a Baghdad e del duplice arresto di due dei principali dirigenti del regime fascista di Saddam, il vicepresidente Yassin Ramadan e, ieri, di Alì il chimico, il gasatore di migliaia di sciiti. L’Iraq postfascista non è ancora un paese sicuro, non è ancora il paese dei sogni della Casa Bianca (copyright New York Times), ma oggi ospita un popolo che ha finalmente una speranza di futuro migliore (copyright Washington Post). Prima non c’era nemmeno questa. Sergio Vieira de Mello, ucciso con altri ventidue funzionari Onu sbarcati a Baghdad per ricostruire un paese distrutto da una delle più brutali dittature del mondo, nella sua ultima intervista, riportata ieri da Repubblica, ha risposto così alla domanda se "a suo avviso l’intervento militare in Iraq era giustificato": "Non abbiamo trovato armi di distruzione di massa, ma sono state scoperte molte fosse comuni. Abbiamo le prove di migliaia di casi di violazioni dei diritti umani, e questo basta. Gli iracheni hanno ricominciato a vivere".
Il documento, scritto da Paul Bremer e dai suoi uomini, fa un primo bilancio di questo ritorno alla vita. Parziale, incompleto, difficile e pericoloso quanto si vuole, ma alcuni obiettivi sono stati raggiunti. Il testo si intitola enfaticamente "Risultati in Iraq: 100 giorni per la conquista della sicurezza e della libertà". Il sottotitolo spiega che si tratta di un elenco dei "principali successi riguardanti il rinnovamento dell’Iraq e la fine del regime di Saddam". E’ un documento molto americano, scritto per punti, con le shortlist dei dieci motivi o dei diecisegnali di miglioramento della vita quotidiana nazionale, economica e culturale.
Sostiene Bremer che aver liberato l’Iraq abbia contribuito a indebolire il fronte terroristico e, pur non sottovalutando i pericoli, anche a rafforzare giorno dopo giorno la sicurezza interna. Gli attentati e le uccisioni dei marines americani testimoniano di problemi enormi, ma certo non si tratta di "resistenza" popolare irachena agli invasori yankee, come si legge spesso sui giornali nostrani. La parola resistenza, quanto meno in Italia, dovrebbe ricordare altro. I resistenti erano i partigiani, gli antifascisti che l’esercito alleato liberò dal nazifascismo. Gli altri, i seguaci del regime, i fedeli al dittatore, i nostalgici del totalitarismo, cioè gli avversari dell’esercito liberatore e dei partigiani, combattevano per la Repubblica Sociale di Salò. I Fedayn di Saddam, se proprio si vuole fare il paragone, sarebbe meglio chiamarli repubblichini, non resistenti.
Bremer, nel documento, elenca puntigliosamente i programmi per l’infanzia irachena, per il ritorno a scuola, per i vaccini, e le tonnellate di cibo distribuite. Si possono leggere i dati sul miglioramento della condizione delle donne e sui centocinquanta giornali liberi e indipendenti che sono stati fondati dal giorno della liberazione. Ci sono i dati sulla nascente economia e su una parvenza di nuova vita culturale.
Sul piano politico sono fondamentali i "Dieci segnali di democrazia", dalla nascita del Consiglio direttivo rappresentativo dell’articolazione etnica, territoriale e politica del nuovo Iraq, i primi sindaci, i lavori preparatori della Costituzione. E’ già tanto ma contemporaneamente ancora troppo poco. Servono impegno maggiore, più uomini, più soldi, più cooperazione.
Il documento non fa cenno al mancato ritrovamento delle armi di distruzione di massa. Ma, come diceva anche Vieira de Mello, sono state trovate le fosse comuni di massa. "E questo basta".
22 Agosto 2003