La missione non è ancora compiuta. L’idea rivoluzionaria di combattere senza tregua il terrorismo antioccidentale, cambiare i regimi, abbattere le dittature, liberare i popoli e promuovere la democrazia è a un bivio. E, tra l’altro, non si capisce ancora se lo stallo e le incertezze americane siano da imputare a un problema di costi, a errori di pianificazione strategico-militare o più semplicemente all’avvicinarsi della campagna elettorale. William Kristol, sul Weekly Standard, ha scritto che le elezioni contano, ma ha ricordato che siamo all’inizio di una nuova era della politica estera: "Il ruolo dell’America non si risolverà una volta per tutte con le elezioni del 2004, ovvio. Ma certamente il risultato sarà decisivo per una generazione".
L’Amministrazione Bush dà l’impressione di non avere ancora deciso quale delle due vie imboccare. Da una parte si va per continuare la guerra antifascista contro i regimi che finanziano e promuovono il terrorismo; dall’altra si intravedono l’ordinaria amministrazione e la ricomposizione internazionale. La Casa Bianca non sceglie l’una, né abbandona l’altra. Per i sostenitori della guerra totale al terrore, l’indecisione porta diritti al disastro perché non si mostra all’avversario, anzi al nemico, la risolutezza di chi vuole andare fino in fondo. Al contrario, si trasmette una debolezza di intenti che rafforza la follia omicida degli islamofascisti. Una posizione simile a quella di chi, fin dall’inizio, ha invocato cautela, dialogo e condivisione internazionale dell’impegno antiterroristico per evitare che ogni giorno senza l’Onu allontani la possibilità di portare ordine in Medio Oriente.
Che fare, dunque? La Casa Bianca già la sera dell’11 settembre aveva promesso che dopo l’attacco alle Torri avrebbe fatto sul serio, tracciato una linea sulla sabbia, da una parte chi voleva sconfiggere il terrorismo e dall’altra i paesi dell’Asse del male, e combattuto senza cedimenti fino alla vittoria finale. Una logica da cowboy, ma è per merito di questa ferocia rivoluzionaria che in 18 mesi ha annientato due regimi fascisti, primo passo dell’ambizioso progetto di liberare e ridisegnare il Medio Oriente, e con il Medio Oriente anche le Nazioni Unite e il rapporto transatlantico con l’Europa.
Bush ieri ha autorizzato i suoi uomini a cercare un accordo per un mandato internazionale Onu in Iraq. Servono più uomini, più soldi e più civili del previsto. Secondo i liberal, la richiesta è una specie di dietrofront. Il portavoce della Casa Bianca smentisce e anche Colin Powell spiega che era tutto previsto. Lo conferma la missione americana di Franco Frattini, il quale questa mattina incontra Powell e poi Kofi Annan, a pochi giorni dal vertice sardo Berlusconi-Putin (con telefonata a Bush) che ha convinto la Russia ad accettare il comando Usa della missione Onu.
A Baghdad come in Bosnia
I neoconservatori, coloro cioè che hanno fornito al Bush post 11 settembre il progetto di esportare la democrazia per sconfiggere il terrorismo, sembrano meno baldanzosi di prima. C’è la granitica convinzione di Michael Ledeen e della National Review, ma c’è anche l’imbarazzo di Paul Wolfowitz che sul Wall Street Journal si è appellato al sostegno patriottico che meriterebbero le truppe più che a una lucida analisi della situazione. In un articolo pubblicato dal Foglio la settimana scorsa, Robert Kagan e William Kristol, avevano chiesto a Bush una cosa diversa: un maggiore impegno americano, non di scaricare le responsabilità all’Onu né di bosnizzare l’Iraq.
Bush, ha scritto Andrew Sullivan, "sta tentando di far funzionare la liberazione dell’Iraq, e sembra che si sia convinto della necessità di un coinvolgimento internazionale". Secondo il giornalista inglese, però "sta andando fuori strada", così come sbagliò quando dichiarò "compiuta" la missione in Iraq: "Sta dando l’impressione che la crescente violenza di questi giorni sia in qualche modo un’inversione di tendenza rispetto a quella vittoria, piuttosto che la continuazione della battaglia".
Interessante l’analisi di Lawrence Kaplan su The New Republic, rivista neoliberal. Sondaggi e libri di storia alla mano, Kaplan confuta l’idea secondo cui gli americani cambiano opinione se aumenta il numero delle vittime. Non è così, spiega. Gli americani non hanno la fobia delle perdite, ma quella della sconfitta. La vera sfida dei leader americani non è quella di convincere l’opinione pubblica a mantenere la linea in Iraq. La sfida è convincere se stessi.