Il rivoluzionario discorso di George Bush di giovedì al National Endowment for Democracy ha inaugurato "l’era della libertà", ha scritto ieri sul New York Times, William Safire. Aver esposto in modo così deciso l’impegno americano per democratizzare il Medio Oriente e liberare quei popoli dai tiranni è un messaggio che, secondo alcuni commentatori, ricorda gli epocali discorsi idealisti di John Kennedy o Ronald Reagan e ribalta quella realpolitk che per decenni ha ispirato la politica estera statunitense, quella per intenderci che avuto dei campioni in Richard Nixon e in Bush padre. "Sessanta anni in cui le nazioni occidentali hanno perdonato o si sono compiaciute della mancanza di libertà in Medio Oriente ha detto Bush non ci hanno affatto reso più sicuri, perché alla lunga la stabilità non può essere raggiunta a spese delle libertà".
Bush spera che la sua presidenza verrà ricordata per questa sfrontata strategia della libertà, perché "creare un Iraq libero nel cuore del Medio Oriente sarà un evento spartiacque", e dunque "il fallimento incoraggerebbe i terroristi, aumenterebbe i pericoli per gli americani, e farebbe svanire la speranza per milioni di persone".
Il discorso è piaciuto quasi a tutti, compresi New York Times e Washington Post, nonostante David Frum, l’inventore dello slogan "asse del male", su National Review si sia lamentato della cautela nei confronti del regime iraniano. Ma sono stati i neoconservatori, Bill Kristol e Robert Kagan, sulla rivista Weekly Standard uscita ieri, quelli che hanno parlato apertamente di una divisione all’interno dell’Amministrazione, di una differenza strategica tra le parole di Bush e l’azione di Donald Rumsfeld.
I giornali italiani continuano a parlare di un Pentagono sequestrato dai neoconservatori, ma il Segretario alla Difesa è da mesi oggetto di punzecchiature da parte dei neocon. La più frequente riguarda il numero delle truppe americane in Iraq. Rumsfeld sostiene che le forze in campo in Iraq siano più che sufficienti, tanto che ha già programmato il ritiro del 20 per cento del contingente americano. Secondo Rumsfeld, la sicurezza del paese va gradualemente affidata agli iracheni, ai legittimi proprietari del paese sequestrato per trentacinque anni da Saddam. Gli sforzi, dunque, devono concentrarsi sull’addestramento della polizia locale e sull’ampliamento di un esercito che sia totalmente desaddamizzato. Parole ripetute da Rumsfeld anche domenica scorsa, a poche ore dal discorso di Bush. Secondo Kristol e Kagan, la strategia di Rumsfeld non sembra finalizzata alla vittoria, a differenza di quella di Bush, ma pare alla ricerca di una via d’uscita possibile. Rumsfeld, ovviamente, non ha mai detto esplicitamente di voler ritirare le truppe né lo pensa, ma è evidente che si tiene a portata di mano una soluzione alternativa all’occupazione permanente. Questa politica naturalmente è legata al ruolo del Pentagono e dell’esercito ed è anche una carta di riserva della macchina politica americana, ma esprime anche una tendenza "realista" che i neocon combattono.
Kristol e Kagan e le truppe in Iraq
Kristol e Kagan spiegano che, dall’11 settembre del 2001, la linea rivoluzionaria della Casa Bianca ha prevalso sulla tradizionale politica estera del Dipartimento di Stato. Sconfitta la difesa dello status quo, che cosa succederà adesso? Bush prevarrà sul Pentagono? In fondo, scrivono i due giornalisti, "i discorsi sono una cosa buona, ma le truppe sono meglio". Al momento, infatti, sembra prevalere una versione "realista" della rivoluzione democratica. Domenica il Washington Post ha scritto che dentro l’Amministrazione c’è chi pensa a un’alternativa al Consiglio governativo iracheno per garantire che gli Stati Uniti siano in grado di passare il potere agli iracheni al momento del ritiro delle truppe. E’ giusto lavorare per un veloce trasferimento della sovranità agli iracheni, ma resta il fatto che oggi "dobbiamo sconfiggere i gruppi terroristici e i pericolosi affiliati di Saddam che operano in Iraq". Secondo Kristol e Kagan, le cui tesi sono condivise dal senatore John McCain, "in Iraq non ci sono truppe sufficienti". Bush ha più volte ripetuto che lascerà l’Iraq soltanto quando sarà un paese democratico. Sarebbe opportuno, scrive il Weekly Standard, che il Pentagono applicasse una strategia coerente con gli obiettivi del presidente.