Gentile signora Barbara Spinelli, domenica ha iniziato il suo consueto editoriale sulla Stampa con una "menzogna". Le chiedo scusa per l’uso brutale della parola "menzogna" ma, diciamo così, è una sua citazione. E’ stata lei a scriverla più volte nel corso del suo articolo, a proposito della politica estera dell’Amministrazione Bush.
Vengo subito al merito della "menzogna" (la sua, non quella di Bush). Lei ha scritto alla prima riga questa frase: "Abbattere i tiranni ed esportare la democrazia: alla fine, non avendo trovato le armi di distruzione di massa e non potendo certificare l’esistenza di un patto fra Saddam e i terroristi che avevano abbattuto le torri di New York, l’amministrazione americana è giunta a quest’ultima giustificazione della guerra iniziata nel 2003 in Iraq". Ha scritto "alla fine", "infine", "quest’ultima". Secondo lei, dunque, "non avendo trovato le armi di distruzione di massa", l’Amministrazione Bush "è giunta a quest’ultima giustificazione", cioè "estendere l’uso della democrazia nei paesi petroliferi del Golfo e in Medio Oriente, far sì che i popoli governino se stessi senza l’oppressione d’un tiranno". Di questo progetto, scrive ancora, "Bush vuol apparire ultimamente profeta, e garante". Lei scrive "ultimamente". Gentile signora, ha scritto una "menzogna", peraltro su un grande giornale che meglio di altri ha raccontato ai suoi lettori le ragioni e le finalità della guerra al terrorismo.
Sia chiaro, gentile signora: Bush ha certamente sempre parlato delle armi (che non si sono trovate ma che tutti, Onu, Francia e Saddam compresi davano per scontato che ci fossero) e di legami tra Iraq e al Qaida (che sono stati provati), ma contemporaneamente non ha mai nascosto che l’obiettivo di questo enorme sforzo contro il terrorismo fosse la sicurezza degli Stati Uniti, e che la sicurezza nel lungo periodo non potesse che essere assicurata dalla liberazione dalla tirannia e dall’avvio del processo liberale e democratico in Medio Oriente. Non è una mia opinione, è un suo errore. Una sua "menzogna" direbbe lei. La prego di prendere un taccuino e segnarsi queste date e queste frasi che dimostrano la fallacità delle sue affermazioni.
Ottobre 2002, 15 mesi fa, non "ultimamente", la risoluzione del Congresso americano che autorizza l’uso della forza contro l’Iraq dice esplicitamente che, come già previsto dall’Iraq Liberation Act, "la politica degli Stati Uniti deve essere quella di sostenere gli sforzi per rimuovere dal potere l’attuale regime iracheno e promuovere la nascita di un governo democratico che rimpiazzi quel regime". Preso nota? Bene. Qualche giorno prima, il 19 settembre 2002 (16 mesi fa, non "infine"), Bush ha presentato il testo della risoluzione, e alla domanda di un giornalista che chiedeva se l’obiettivo del "cambio di regime" facesse parte della risoluzione, ha risposto: "Sì, questa è la politica del governo".
Se non le bastasse, e sempre restando ai documenti ufficiali, nel discorso sullo Stato dell’Unione del 29 gennaio 2002, Bush ha detto che "l’America starà sempre fermamente al fianco delle non negoziabili richieste di dignità umana: stato di diritto, limiti al potere dello Stato, rispetto delle donne, proprietà privata, libertà di parola; giustizia equa e tolleranza religiosa. L’America sarà sempre a fianco degli uomini e delle donne coraggiose che reclamano questi valori nel mondo, incluso nel mondo islamico". Perché crede di essere più buona? No, "perché ha un obiettivo più grande che non la semplice eliminazione delle minacce e del contenimento del rancore. Noi oltre la guerra al terrore, cerchiamo un mondo giusto e pacifico".
Non le sembra chiaro? Legga allora cosa rispose Bush, era il 7 settembre del 2002, a una giornalista che gli chiedeva quale fosse "davvero il suo obiettivo in Iraq: le armi di distruzione di massa o Saddam Hussein?". Lo sventurato rispose: "L’Amministrazione Clinton ha sostenuto il cambio di regime. Molti senatori hanno sostenuto il cambio di regime. La mia Amministrazione continua a sostenere il cambio di regime".
Ancora. Siamo sempre nel 2002, due anni solari fa. A Cincinnati, citando un ispettore dell’Onu, Bush ha spiegato perché tra tutti i regimi con armi di distruzione di massa sarebbe stato necessario fermare proprio l’Iraq: "Il problema fondamentale dell’Iraq è la natura stessa del suo regime". Bush sperava ancora che Saddam accettasse di adempiere alle risoluzioni Onu, se lo avesse fatto non ci sarebbe stata la guerra. Lei, signora Spinelli, potrebbe dire: vedete? la democrazia non c’entra, Bush voleva solo il disarmo, del regime non gli interessava un fico secco. E invece no, gli interessava. Sempre in quel discorso, infatti, Bush ha detto che se Saddam avesse adempiuto agli obblighi imposti dalla comunità internazionale sarebbe stato un fatto così clamoroso che avrebbe, di per sé, "cambiato la natura stessa del regime iracheno".
Stessa cosa nei giorni seguenti, alle domande dei giornalisti su quale fosse il vero obiettivo, le armi o Saddam, Bush ha sempre detto: il cambio di regime. Oltre alle armi, insomma, c’era da abbattere la dittatura. Tutti i discorsi, gentile signora, può trovarli sul sito della Casa Bianca.
Arriviamo al 2003. Ventisei febbraio, un mese prima dell’inizio della guerra, discorso all’American Enterprise Institute (la citazione, qui, è lunga, perché Bush ha parlato soltanto della necessità di esportare la democrazia in Medio Oriente): "Intervenire per rimuovere la minaccia contribuirà in modo essenziale alla costruzione di una sicurezza e stabilità durature per il nostro pianeta. L’attuale regime iracheno ha dimostrato ampiamente come la tirannia abbia la capacità di diffondere la discordia e la violenza in tutto il Medio Oriente. Un Iraq liberato mostrerà come la libertà abbia la forza di trasformare questa regione di importanza vitale, portando speranza e progresso nella vita di milioni di persone. La preoccupazione dell’America per la sicurezza e la sua fede nella libertà conducono nella stessa direzione: a un Iraq libero e pacifico. I primi a trarre vantaggi da un Iraq libero saranno gli stessi iracheni. Oggi vivono nella miseria e nella paura, sotto il giogo di un dittatore che non gli ha dato altro che guerra, povertà e tortura. La loro vita e la loro libertà non contano niente per Saddam; ma per noi sono assolutamente importanti. Portare la stabilità e l’unità in un Iraq libero non sarà facile. Ma questa non è una scusa per lasciare che le camere di tortura e i laboratori di armi chimiche del regime iracheno continuino a funzionare. Qualunque futuro si sceglierà il popolo iracheno sarà sempre migliore dell’incubo in cui li costringe a vivere Saddam".
Continua Bush, peraltro anche in italiano, gentile signora Spinelli, in particolare sul Foglio del 28 febbraio: "Gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di stabilire la forma precisa del nuovo governo iracheno. Questa scelta appartiene al popolo dell’Iraq. Tuttavia, non permetteremo che un brutale dittatore sia sostituito da un altro uguale a lui. Tutti gli iracheni dovranno avere voce in capitolo nel nuovo governo, e a tutti i cittadini dovranno essere garantiti i propri diritti. La ricostruzione dell’Iraq richiederà l’impegno attivo di molte nazioni, compresa la nostra: resteremo in Iraq per tutto il tempo necessario, e non un giorno di più. L’America ha già preso e rispettato in passato questo tipo di impegno: nella pace seguita alla Seconda guerra mondiale. Dopo avere sconfitto i nemici, non abbiamo lasciato eserciti d’occupazione ma Costituzioni e Parlamenti. Abbiamo creato un’atmosfera di sicurezza, grazie alla quale capi locali riformisti hanno potuto dare vita a stabili istituzioni di libertà. Nelle società che avevano nutrito il fascismo e il militarismo, la libertà ha messo radici permanenti. Ci fu un momento in cui molti dissero che il Giappone e la Germania erano incapaci di vivere nel rispetto dei valori democratici. Ebbene, si sbagliavano. Oggi alcuni dicono la stessa cosa dell’Iraq. Si sbagliano anche loro. La nazione irachena con la sua prestigiosa eredità culturale, le sue abbondanti risorse e la sua capace e istruita popolazione è perfettamente in grado di muoversi verso la democrazia e verso una vita vissuta in piena libertà".
Legga qui, gentile signora, la guerra non era ancora iniziata: "Il mondo ha un evidente interesse nella diffusione dei valori democratici, perché le nazioni solide e libere non alimentano le ideologie della violenza. Incoraggiano invece la ricerca di una vita migliore. E nel Medio Oriente ci sono segnali di una voglia di libertà che danno molte speranze. Gli intellettuali arabi hanno invitato i governi degli Stati arabi ad affrontare il problema della ‘mancanza di libertà’, in modo che i loro popoli possano avvantaggiarsi pienamente dei progressi della nostra era. I leader della regione parlano di una nuova Carta degli Arabi che promuova le riforme interne, una maggiore partecipazione politica, l’apertura e la trasparenza economica, e il libero commercio. Dal Marocco al Bahrein e anche oltre, le nazioni stanno facendo passi concreti in direzione delle riforme politiche. Un nuovo regime in Iraq rappresenterà un esempio di libertà straordinario e ispiratore per altre nazioni della regione. E’ una cosa presuntuosa e insultante sostenere che un’intera regione del mondo o un quinto dell’umanità, di religione musulmana sia in qualche modo sorda alle più fondamentali aspirazioni della vita. Le culture possono essere diverse tra loro. Ma, in qualsiasi parte del mondo, il cuore dell’uomo desidera le stesse buone cose. Il desiderio di vivere al sicuro dall’oppressione dei violenti e dei prepotenti è condiviso da tutti gli uomini, così come la preoccupazione per i propri figli e la speranza che abbiano una vita migliore. Per queste fondamentali ragioni, la libertà e la democrazia avranno sempre e dovunque un fascino e un richiamo molto superiore a quello degli slogan fomentatori d’odio e della strategia del terrore".
Il 16 marzo, al summit atlantico alle Azzorre, Bush ha promosso un documento con Tony Blair e José María Aznar che diceva: "Noi vorremmo sottoporci a un impegno solenne per aiutare il popolo iracheno a costruire un nuovo Iraq in pace con se stesso e con i vicini. Gli iracheni meritano di essere sollevati dall’insicurezza e dalla tirannia, e liberati per autodeterminare il futuro del loro paese. Sosterremo le aspirazioni per un governo rappresentativo che consideri i diritti umani e lo stato di diritto come pietre miliari della democrazia".
Signora Spinelli, la guerra non era ancora iniziata in quel momento. Tre giorni dopo, Bush l’ha annunciata con queste parole: "Cari cittadini, a quest’ora, le forze americane e della coalizione, hanno appena iniziato le operazioni militari per disarmare l’Iraq, liberare il suo popolo, e difendere il mondo da un grave pericolo".
A guerra finita, i discorsi sulla democrazia non si contano, ma almeno uno glielo vorrei segnalare, magari Le potrà servire per un prossimo articolo. Era il 7 novembre, due mesi e mezzo fa (non "infine" come ha scritto Lei domenica), al National Endowment for Democracy. Lì è stata spiegata la dottrina del virus democratico, simile a quella attuata venti anni fa da Ronald Reagan. Le riporto solo due parole: "Creare un Iraq libero nel cuore del Medio Oriente sarà un evento spartiacque". Il discorso piacque finanche agli anti Bush New York Times e Washington Post. La Stampa, il suo giornale, ne parlò ampiamente. Lei, gentile Barbara Spinelli, non ne ha tenuto conto e, sempre domenica, ha scritto che "a forza di passare disinvoltamente da una menzogna all’altra, tuttavia, c’è il pericolo di affezionarsi alle menzogne". Sottoscrivo.
20 Gennaio 2004