Milano. Gli intellettuali della sinistra americana che nel silenzio della stampa internazionale hanno sostenuto le ragioni della guerra al terrorismo e dell’invasione dell’Iraq, nove mesi dopo l’inizio delle operazioni militari hanno cominciato a interrogarsi se ne sia valsa la pena e se, alla luce del mancato ritrovamento di armi di sterminio, le ragioni dell’intervento siano ancora valide. Il direttore del New York Times li aveva definiti "quelli del club non-posso-credere-di-essere-diventato-un-falco". Sono Christopher Hitchens, Thomas Friedman, Kenneth Pollack, Fred Kaplan, George Packer e lo stesso direttore del Times, Bill Keller. Scrittori, giornalisti e intellettuali di sinistra che da avversari di George Bush hanno argomentato la necessità e l’urgenza di un intervento in Medio Oriente con motivazioni democratiche e liberatorie simili a quelle dei neoconservatori. Nelle scorse settimane, su questo punto, è uscito un libro scritto a più mani da un gruppo di "liberal non ortodossi" il cui titolo è "La battaglia è per la democrazia Vincere la guerra di idee in America e nel mondo".
Che bilancio trarre, dunque, a meno di un anno dall’intervento? Tra i falchi liberal c’è chi, ma solo in parte, si è pentito della scelta di allora, chi spiega che nonostante gli errori di Bush il mondo senza Saddam sia certamente migliore, e chi accusa duramente l’Amministrazione per non essersi impegnata abbastanza. Tra questi c’è Paul Berman, autore di "Terrore e Libertà" (in uscita per Einaudi) che al Foglio spiega come Bush stia perdendo "la guerra di idee, la più importante". Secondo lo scrittore americano convinto che il terrorismo fondamentalista sia l’ultimo lascito dei totalitarismi del Novecento, "ciò non vuol dire che il presidente sia una creatura delle compagnie petrolifere, come direbbe la sinistra alla Noam Chomsky".
Il fallimento dei servizi
Il dibattito è serio e lo ha iniziato Kenneth Pollack, l’ex analista delle Amministrazioni Clinton che con il suo monumentale libro "The Threatening Storm" aveva convinto una gran fetta dell’opinione pubblica liberal del "case", come dicono gli americani, contro Saddam Hussein. Pollack ha scritto un lungo e dettagliato articolo sull’ultimo numero di Atlantic Monthly che inizia con un’ammissione: "Diciamo la verità: nello scorso marzo, quando gli Stati Uniti e i suoi partner hanno invaso l’Iraq, l’opinione pubblica credeva che dopo la caduta di Saddam sarebbero venute in superfice enormi quantità di armi di distruzione di massa. Non è successo". Pollack si è chiesto come sia stato possibile l’inganno. La sinistra e la destra isolazionista sostengono che l’Amministrazione Bush abbia esagerato la minaccia irachena per giustificare una guerra non necessaria, mentre i repubblicani credono che la colpa sia della Cia e di tutte le strutture di intelligence: "Hanno, almeno in parte, ragione entrambi", scrive sconsolato Pollack.
I rapporti dei servizi, risalenti ai tempi di Clinton (come ha ammesso la stessa Hillary Rodham qualche mese fa), hanno sovrastimato i programmi militari di Saddam, mentre, scrive Pollack, l’Amministrazione Bush ha usato esclusivamente quelle informazioni che confermavano la necessità di agire al più presto. Bill Keller qualche mese fa scrisse che l’America non ha invaso l’Iraq perché l’intelligence aveva falsificato le prove sulle armi, piuttosto voleva neutralizzare la minaccia di Saddam e a tal fine ha enfatizzato gli indizi contro il regime. Grave, ma ancora più pericoloso risulta l’indebolimento dei servizi segreti, cioè della migliore arma a disposizione dell’Occidente contro il terrorismo. Chi crederà, d’ora in poi, alle "prove dello sviluppo di armi nucleari da parte dell’Iran"?
Pollack in realtà mette le mani avanti: "Non abbiamo un quadro completo dei programmi iracheni". Quanto è stato trovato finora ha scritto Pollack prima che i danesi avessero scovato agenti chimici in un arsenale missilistico prova che l’Iraq aveva programmi di armi di sterminio, ma non così estesi, avanzati e minacciosi". Saddam aveva certamente qualcosa da nascondere, ma le analisi pre-intervento erano sbagliate: "Questo non vuol dire che la guerra sia stata un errore strategico, sebbene ci sia stata una spaventosa gestione del dopoguerra. Non è in questione il fatto che Saddam fosse una forza di reale instabilità nel Golfo Persico, averlo cacciato dal potere costituisce uno straordinario miglioramento. Non si discute neanche che Saddam fosse il male puro, e che guidasse uno dei peggiori regimi degli ultimi cinquanta anni. C’è di più: non dobbiamo dimenticarci che la politica del contenimento stava fallendo. Il vergognoso comportamento nel 2002-2003 dei membri del Consiglio di sicurezza Onu (in particolare della Francia e della Germania) è stata la prova finale che il containment non sarebbe durato a lungo: Saddam avrebbe ricostituito i suoi programmi di distruzione di massa, anche se in un futuro più lontano di quando pensassimo. Detto questo, gli argomenti a favore della guerra, e della guerra subito, sono certamente meno irresistibili di quanto apparissero in quel momento".
L’errore di Bush è stato proprio questo, dice Berman al Foglio: "La maggior parte della gente pensa che la questione delle armi e la pretesa alleanza con al Qaida siano state le uniche ragioni per la guerra in Iraq, e che non ce ne fossero altre. Bush avrebbe potuto raddrizzare questa impressione in 5 minuti, se solo avesse voluto farlo. Ma non l’ha fatto perché Colin Powell e i capi del Dipartimento di Stato continuano a pensarla così: la battaglia contro il totalitarismo non viene citata neanche di striscio". Secondo Berman, Bush paga questa "contraddizione esistente dentro la sua stessa Amministrazione".
Si discute su Slate.com
Il tema è stato affrontato di petto dalla rivista on line Slate. Jacob Weisberg ha chiesto ai falchi liberal, e a Fareed Zakaria, di riflettere sull’argomento. Pollack ha confermato la tesi esposta su Atlantic Monthly e ha ribadito che se dovesse riscrivere il suo libro non sarebbe così inequivoco e risoluto sulla necessità di invadere l’Iraq. Soppesando i pro e i contro, l’invasione e la deterrenza starebbero sullo stesso piano, ma "la differenza fondamentale tra le due opzioni è che avendo scelto la prima è stato tolto un grande male per il mondo, ed è stata creata la possibilità di far nascere un nuovo Iraq". Secondo Pollack, dunque, la guerra è stata la scelta meno sbagliata tra le tante imperfette opzioni disponibili.
Thomas Friedman, decano delle pagine delle opinioni del New York Times, non ha niente da farsi perdonare. Non ha mai sostenuto la guerra per la questione delle armi. E oggi è ancora più convinto della sua scelta interventista: "Ci sono stati quattro motivi per cui si è fatta questa guerra, e concordo con tre di essi. Il motivo dichiarato, il motivo morale, il motivo giusto e il motivo reale. La ragione dichiarata è quella delle armi di distruzione di massa". Friedman sostiene che Bush e Blair hanno scelto di puntare sulle armi di sterminio per dimostrare all’opinione pubblica che la guerra era una necessità: "Ora per questo dovranno rispondere". Molto più convincenti erano gli altri motivi: "La ragione morale è che il regime di Saddam è stato responsabile del genocidio di un milione di iracheni, curdi, iraniani e kuwaitiani". La ragione giusta è quella secondo cui la vera arma di distruzione di massa è la legione di nuove generazioni colme di odio sfornate dai falliti e repressivi Stati arabi. La ragione reale di questa guerra, secondo Friedman, è quella mai ufficialmente dichiarata: "C’era da far scoppiare la bolla terrorista, e l’unico modo per farlo era quello di andare nel cuore del mondo arabo e sfasciare qualcosa, per far sapere che anche noi siamo pronti a combattere e morire per difendere la nostra società aperta. Sì, d’accordo, non è diplomatico, non è nel galateo, ma tutti hanno capito il messaggio".
Neanche Christopher Hitchens, polemista e inviato di Vanity Fair, ha mai dato un peso eccessivo alla questione delle armi, per lui la vera arma di distruzione di massa è la dittatura. Caduto Saddam è stato disinnescato il pericolo. Hitchens è un idealista, come Berman. Il quale spiega al Foglio che Bush, invece, è "un realista, uno che cerca di trovare una soluzione concreta, non gli interessano le idee astratte. In questo caso la spinta per cui cerca una soluzione concreta è quella di sconfiggere quel tipo di movimento politico che, in un’altra versione, ha attaccato gli Stati Uniti". Certo, continua Berman, "Bush ha anche avuto una leggera tendenza idealista, che avrebbe potuto guidarlo a intraprendere la guerra di idee, ma molti dei suoi consiglieri e suo padre sono strettamente realisti. Condoleezza Rice ha confessato che lei stessa ha dovuto adattarsi, rispetto al suo background realista. Powell è un realista convinto. Il risultato è l’incoerenza. Due popoli sono stati liberati o, più modestamente, sono stati messi nella situazione che la loro liberazione diventi possibile. E’ un grande risultato. Ma non è sufficiente. A parte qualche ottimo discorso, Bush non ha mai fatto in modo che qualcuno prendesse sul serio le sue parole sul futuro democratico e liberale di quelle società. Un po’ perché i suoi nemici non vogliono prendere in considerazione l’ipotesi che possa aver detto cose intelligenti o stimolanti ma, d’altra parte, lui stesso fa poco per dare consistenza a quei discorsi. Mi chiedo, per esempio, per quale motivo non sia ancora riuscito a far nascere una televisione di prima qualità in lingua araba?".