(qui la prima parte)
Il tradizionalismo e il liberismo trovano un terreno comune su cui appoggiarsi, ed è proprio qui che emergono le prime differenze con il neoconservatorismo. Per i tradizionalisti e i liberisti, in netto contrasto con i neocon, la politica ha un’importanza secondaria. Secondo i tradizionalisti, la cultura o la storia sono il fattore primario nella vita degli uomini; per i liberisti è l’economia. Non sorprende che sembrino spesso avere ben poche affinità con la vita democratica. La caratteristica distintiva del neoconservatorismo può essere rintracciata nella sensibilità per la politica in generale e per la politica della democrazia in particolare.
Il neoconservatorismo è quasi del tutto privo di quella nostalgia per un passato pre-industriale e pre-illuministico che caratterizza il tradizionalismo. Ciò non significa che i neocon sostengano un mercato senza regole o non sappiano apprezzare la nostra eredità morale e spirituale, come nel caso dei liberisti. Al contrario, i neoconservatori condannano il progetto neoburkeano di Kirk per la sua totale inutilità. E’ molto probabile che gli appelli alla tradizione come autorevole guida per la vita americana o come freno al cambiamento e all’innovazione non verranno ascoltati quasi da nessuno. E’ vero che in America abbiamo le nostre tradizioni, ma sono per lo più di stampo democratico-liberale, come il nostro rispetto per i diritti individuali e la nostra venerazione per la salute e il benessere. Non c’è bisogno di avere vissuto in prima persona le nostre più recenti e turbolente trasformazioni culturali per riuscire a capire questa verità sulla democrazia americana. Già durante la sua visita in America negli anni Trenta dell’Ottocento, Tocqueville aveva osservato che gli americani "danno valore alla tradizione soltanto come fonte di informazioni".
La politica à la Burke non è costruita con questa materia prima della cultura americana. In virtù del riconoscimento di questo fatto fondamentale della vita americana (ossia che praticamente tutto è in vendita e in continuo movimento), i neoconservatori credono, per parafrasare Tocqueville, che il nostro obiettivo deve essere l’educazione e la direzione della democrazia, anziché l’idea di superarla o, cosa altrettanto sconsigliabile, di disprezzarla, come fanno molti intellettuali conservatori. L’assioma politico di Burke era che, "quando vengono sottratte le antiche concezioni e regole di vita, la perdita è incalcolabile. Da quel momento in poi ci manca una bussola per mezzo della quale governarci". Per i conservatori questo è eccessivo. Pur senza condividere la fede illuministica nella ragione come nostra unica autentica bussola, i neocon sono convinti che, nell’èra democratica, le antiche concezioni non possono essere mantenute solo sulla base della loro autorità, ma devono essere difese e sostenute con una discussione aperta, e che le antiche regole, per continuare a valere, devono essere fatte appoggiare su un fondamento diverso da quello che si definisce con il termine di "prescrizione". La perdita è considerevole; ma anziché battere sconfitti in ritirata o condannare la democrazia tout court, i neoconservatori vanno alla ricerca di alternative democratiche per questi antichi modelli di vita. I neoconservatori sono consapevoli che la tradizione e i costumi, in se stessi, hanno ben poca presa su un popolo democratico, e perciò cercano altri mezzi per tenere la democrazia lontana dai suoi istinti peggiori.
Almeno su questo punto i neocon e i paleocon sono parzialmente d’accordo: a differenza dei tradizionalisti, entrambi ritengono che il passato non sia più recuperabile. La domanda è quindi: partendo da qui, dove andiamo? Il lamento per la perduta tradizione conduce i paleoconservatori alla ricerca di nuovi dèi, nuovi eroi e nuovi miti. Pieni di disprezzo per ciò che considerano gli idoli democratici dell’uguglianza e del benessere, cercano non di salvare la democrazia da se stessa bensì di accelerarne il crollo, aprendo la strada a un’èra postmoderna e postdemocratica. Al contrario, i neoconservatori intendono dare nuova vita ai principi fondatori dell’America e al suo modello di vita democratico. Sono perfettamente consapevoli dei difetti della democrazia (le sue spesso basse aspirazioni e le sue tendenze alienanti), ma riconoscono anche la fondamentale giustizia dell’eguaglianza democratica. I neoconservatori cercano di garantire un’autentica libertà e dignità umana nell’èra in cui viviamo, l’èra democratica, e non in qualche utopia futurista.
Libertà e Dispotismo
Il realismo politico del neoconservatorismo, la sua insistenza sul fatto che le nostre analisi debbano avere come punto di partenza i concreti modelli di vita dei popoli democratici, non è mai equivalso a un semplice e incondizionato sostegno al capitalismo democratico. Una celebre frase di Irving Kristol è "Due hurrà per il capitalismo"; non tre. E’ qui che passa la linea di demarcazione tra il neoconservatorismo e il liberismo.
Consideriamo ancora la questione del Big Government. Anche i neoconservatori sono stati estremamente critici nei confronti del welfare state, e soprattutto delle esagerate speranze che vi ripone la sinistra; ma le loro argomentazioni avevano una portata minore rispetto a quelle dei liberisti. L’ostilità del neoconservatorismo per il welfare state non si è mai estesa, come nel caso del liberismo, all’idea dello stesso bene pubblico. Mentre i liberisti temono che il Big Government possa cancellare praticamente ogni libertà personale, i neocon vedono le cose diversamente. A loro giudizio, le democrazie tendono a incoraggiare la ricerca dell’interesse privato a scapito di tutto il resto; di conseguenza, è il benessere generale la più probabile vittima di una degenerazione.
L’analisi del Big Government proposta da Hayek è sempre apparsa ai neoconservatori troppo semplicistica e persino un po’ ingenua. I pericoli del dispotismo (hard o soft che sia) contro i quali Hayek metteva in guardia, sono allo stesso tempo più remoti di quanto credeva e più insidiosi di quanto immaginava. Quasi tutte le democrazie moderne hanno avuto un più deciso welfare state e un’economia più attenta al sociale che negli Stati Uniti, senza per questo raggiungere il "punto limite" nel quale si trasformano in regimi totalitari. In realtà, non esiste nessuna "strada" che, passando per il welfare state, conduca alla servitù.
Ma questa buona notizia è messa in ombra da un problema molto più profondo, che Hayek e i suoi seguaci liberisti non hanno individuato con sufficiente chiarezza, ma che è stato perfettamente descritto da Tocqueville. Questa svista è per certi versi sorprendente, dato, a detta di Hayek stesso, il filosofo francese era stato l’ispiratore immediato di "The Road to Serfdom". In un certo senso, Hayek non ha compreso le argomentazioni di Tocqueville sui pericoli per la libertà in un democrazia, essendo privo di quella esplicita cura e attenzione per la sfera pubblica che anima il suo predecessore.
Come ci ha spiegato Tocqueville, è la stessa democrazia che favorisce la crescita del governo e minaccia la libertà. Il Big Government ha origini molteplici: i popoli democratici non hanno né la volontà né il tempo per occuparsi direttamente degli affari pubblici (essendo troppo indaffarati a seguire i propri), e quindi, nella loro apatia, lasciano le questioni di governo allo Stato. Anche il loro peraltro ammirevole orgoglio per la propria indipendenza alimenta la crescita dello Stato. A differenza del potere esercitato da un capo famiglia, da un magistrato locale o da un prete, l’autorità del governo, essendo più anonima, è nella gran parte dei casi meno offensiva, ed è perciò più facilmente accettata e tollerata in una democrazia. Anche il capitalismo democratico gioca un ruolo preciso. In periodi di uguaglianza, la classe media si espande e alla fine predomina. Le sue aspirazioni alle comodità e ai piaceri della vita diventano quelle della società nel suo complesso, così come la sua radicale opposizione a tutto ciò che possa mettere in pericolo la sua ricerca del benessere, sicché lo Stato viene visto in misura sempre maggiore come il garante della sicurezza e dell’ordine pubblico. Per tutte queste ragioni, concludeva Tocqueville, nelle democrazie gli uomini "amano per natura il potere centralizzato e ne estendono volontariamente le prerogative".
Il Big Government è, per così dire, scritto nel dna politico della democrazia. Consapevoli di ciò, i neoconservatori ritengono che l’idea di combatterlo sia quasi del tutto fuori luogo. Il punto importante è sapere distinguere tra intromissioni del governo che sono semplicemente un’umiliazione per il cittadino e interventi che rappresentano una risposta naturale al senso di insicurezza della classe media. Il problema del welfare state non riguarda tanto la libertà politica quanto piuttosto lo spettro della corruzione morale. I neoconservatori si sono opposti all’AFDC (Aid to Families with Dependent Children), abrogato con la riforma del 1996, ma in generale sostengono un sistema della previdenza sociale (Social Security). Era infatti risultato chiaro che l’AFDC scoraggiava il lavoro e causava notevoli danni alla famiglia e all’istituzione del matrimonio, mentre, nonostante le spese maggiori, la previdenza sociale non può certo essere considerata uno svantaggio per le persone più anziane. Naturalmente, la forma di assistenza che viene scelta è di grande importanza per il risparmio e l’investimento nazionale e altresì per l’efficienza economica del paese.
I neoconservatori sollevano obiezioni non soltanto contro la critica liberista del Big Government ma anche contro la sua zoppicante comprensione della libertà. I liberisti si schierano in difesa di ogni concepibile libertà tranne quella dell’autogoverno. Sono, caratteristicamente, di solito in favore dell’aborto, della legalizzazione delle droghe, della clonazione, ecc. Ma il "diritto di scegliere" è stato garantito, nell’America contemporanea, soltanto da una proibizione giuridica, che vieta agli individui di agire insieme per decidere sotto quali leggi vivere.
Ora, i neoconservatori non sono certo una cerchia di moralisti. Su alcuni di questi controversi temi culturali, hanno la stessa probabilità di schierarsi "pro" oppure "contro". Per di più, la loro analisi tende a presentarsi in forma piuttosto pacata e colta; forse fin troppo, considerando ciò che è moralmente in gioco. I conservatori religiosi perdono spesso la pazienza per la moderazione di molti neoconservatori su questi temi di vitale importanza.Tuttavia, questa sorta di distacco non deve essere fraintesa come un’approvazione o un’incapacità di comprendere il vero significato della questione.
Il neoconservatorismo è nato come reazione alla rivolta nichilistica della sinistra contro la moralità tradizionale e la religione. Per di più, i neoconservatori sono unanimi e compatti nella loro condanna del modo arrogante e arbitrario con cui i liberisti mettono in atto i propri obiettivi politici. Si impedisce una discussione democratica, e il concetto simboleggiato dalla frase "Noi, il popolo" viene calpestato. Per i neoconservatori, la vera strada per la servitù è rappresentata dagli sforzi dei liberisti e delle èlite di sinistra per cercare di imporre una politica sociale anti-democratica soltanto in nome della libertà. Ma quella che viene garantita è una libertà ristretta e privatizzata. La conseguenza è che viene scoraggiato l’affermarsi di un concreto e attivo interesse per gli affari pubblici. Tutto è permesso, tranne la possibilità di dire la propria nella formazione dell’ethos pubblico. L’ideologia liberista trasformerebbe i cittadini in stranieri che vivono felicemente, anche se in modo distratto e indifferente, nel loro paese.
I neocon al comando?
In che cosa consiste, quindi, l’influenza politica del neoconservatorismo, e qual è il suo effetto sulla politica estera statunitense? Le politiche di George W. Bush, bisogna ammetterlo, presentano, come già quelle di Ronald Reagan, una certa sfumatura neoconservatrice. Durante le primarie, Bush criticò l’impostazione liberista, dichiarando che "la crescita economica non è la soluzione adatta per ogni problema", e rifiutò l’idea di fondo che "se soltanto il governo si togliesse di mezzo, tutti i nostri problemi sarebbero risolti". Troppo spesso, disse Bush, "il mio partito ha dipinto l’immagine di un’America che degenera inesorabilmente in una sorta di nuova Gomorra". Contro questa visione, Bush propose l’idea del "conservatorismo compassionevole", da lui stesso definito come "il credo di un riformismo aggressivo e permanente. Il credo del progresso sociale". Il conservatorismo compassionevole, al pari di quello dei neocon, è tenuto con i piedi per terra dai difficili problemi e dalle specifiche illusioni dell’èra moderna, ma rimane cautamente ottimista nella convinzione che si possa ancora creare un futuro migliore. Una buona parte delle scelte di politica interna adottate da Bush, a cominciare dalle iniziative a sostegno delle fede fino alla sua creazione di una commissione sulla bioetica, sono in perfetta armonia con l’ideologia neoconservatrice.
Ma è stata la guerra in Iraq che, più di ogni altra cosa, ha riportato alla ribalta i neoconservatori. I loro avversari dicono che i neocon hanno assunto il controllo della politica estera dell’Amministrazione Bush. A prima vista, è un’affermazione sorprendente. Il neoconservatorismo si è dedicato a questioni di politica interna, e non ha mai dato vita a un atteggiamento unitario in politica estera (esattamente come non ha mai fondato un proprio metodo di interpretazione costituzionale). Molti dei più autorevoli esponenti del neoconservatorismo (per fare solo qualche nome: Irving Kristol, Nathan Glazer, Daniel Patrick Moynihan, Norman Podhoretz e Jeane Kirkpatrick) hanno opinioni alquanto diverse sulle attuali questioni di politica estera. L’affermazione è sorprendente anche perché, prima delle elezioni presidenziali del 2000, molti neocon non appoggiavano con decisione Bush. I giornalisti del Weekly Standard, ad esempio, nelle primarie si schierarono a favore del senatore John McCain, e criticarono come troppo rigidamente "realiste" le posizioni di Bush in politica estera.
Comunque, dalle elezioni ad oggi, molte cose sono cambiate, e c’è qualche elemento concreto per sostenere che la politica estera di Bush sia influenzata dal neoconservatorismo. Senza dubbio, non ha un grande appoggio da parte delle altre correnti del conservatorismo. I liberisti e i paleocon hanno apertamente disconosciuto la politica estera di Bush, e sono stati tra i critici più feroci del presidente. I conservatori del Congresso, fautori di tagli al bilancio, si sono amaramente lamentati dei 20 miliardi di dollari richiesti da Bush per il progetto di nation-building in Iraq. E il conservatore di stampo tradizionalista George Will si è fortemente opposto alla nuova Dottrina Bush, da lui accomunata al neoconservatorismo. Will ha criticato i neoconservatori per il loro "zelo da crociata" in nome della democrazia, e li ha severamente bacchettati per la loro convinzione che, come dice lui stesso, "in politica, gli obiettivi morali siano imperativi universalmente applicabili". Ha anche paragonato i neocon ai rivoluzionari francesi e russi, in quanto condividerebbero con loro l’idea che "le cose la società, la natura umana siano più malleabili di quanto sono in realtà". Queste accuse sono fuori luogo, ma ci aiutano a capire più chiaramente quale sia la posta in gioco in queste dibattito.
Nell’affrontare le sfide di politica estera degli anni Novanta, i neoconservatori si sono sostanzialmente divisi in due campi. Tutti i neoconservatori si sono opposti in modo compatto al neo-isolazionismo di Buchanan, al realismo amorale di James Baker e di Bush padre, così come all’umanitarismo cosmopolita dell’Amministrazione Clinton; ma si sono divisi sulle alternative. Alcuni, come William Kristol, Robert Kagan e Lawrence Kaplan, hanno sostenuto che il modo migliore per promuovere gli interessi nazionali dell’America è diffondere la democrazia in tutto il mondo. Hanno quindi appoggiato un deciso intervento americano nelle crisi del Kosovo, del Ruanda e di altre regioni; per certi aspetti, si può dire che siano degli "evangelisti democratici". Ma solo fino a un certo punto. A differenza dei liberal wilsoniani, non promuovono la democrazia soltanto in nome della democrazia stessa e dei diritti umani. Al contrario, la promozione della democrazia deve servire a rafforzare la sicurezza dell’America e a consolidare la sua supremazia mondiale; è concretamente e pragmaticamente connessa agli interessi nazionali degli Stati Uniti. I principi seguiti da questi neocon sono universalistici; ma questo non vale per la loro politica, che si mantiene alla larga dalle organizzazioni internazionali e assume posizioni nazionaliste e unilateraliste. I neoconservatori condividono anche certe preoccupazioni di politica domestica del tipo espresso da Tocqueville, come la convinzione che le democrazie siano impazienti e instabili nella conduzione degli affari esteri. A loro giudizio, solo una politica estera fondata su principi morali e sul presupposto dell’espansione democratica può favorire nel lungo periodo gli interessi nazionali dell’America.
Nel frattempo, una nuova e sparuta banda di neoconservatori, il cui esponente più autorevole è l’editorialista del Washington Post Charles Krauthammer, ha elaborato una visione diversa. Anche loro appoggiano una politica estera attiva e fondata su principi precisi morali, ma non sono del tutto convinti che gli interessi nazionali dell’America coincidano perfettamente con la promozione della democrazia all’estero. Krauthammer, ad esempio, si è opposto all’intervento americano in Kosovo e in Liberia perché, a suo giudizio, vi era soltanto una vaga e debole connessione tra questi conflitti e i nostri interessi nazionali, per quanto vasti possano essere considerati. Per questi neoconservatori, l’ambizioso obiettivo di diffondere la democrazia in tutto il mondo è del tutto irrealizzabile. Credono anche, al contrario degli altri neocon, che missioni a scopo puramente umanitario, come quella del Kosovo, abbiano come risultato di allontare gli americani dalla politica estera e di alimentare sentimenti isolazionisti. Allo stesso tempo, anche questi neocon concordano sul fatto che gli interessi dell’America siano necessariamente quelli di una grande e potente democrazia. Per di più, questi interessi non si possono definire, a loro giudizio, in termini strettamente strategici, ma soltanto nel senso di un’affermazione delle nostre convinzioni democratiche, soprattutto quando queste stesse convinzioni si trovano minacciate. L’orgoglio per il nostro stile di vita democratico esige proprio questo.
Ora, ben poco di questa visione della politica estera sembrava avere avuto un’effettiva influenza su George W. Bush e i suoi consiglieri, né durante le campagna elettorale né nel corso dei primi mesi del nuovo governo. Poi però c’è stato l’11 settembre. Non sembrano esserci dubbi sul fatto che, per loro stesso temperamento, il presidente e i suoi più stretti consiglieri preferiscano prendere l’iniziativa, anziché aspettare la prima mossa del nemico per reagire. Da un punto di vista concettuale, ritengono che il ramo esecutivo debba avere un atteggiamento energico, soprattutto negli affari esteri. Costretti ad affrontare una crisi senza precedenti, hanno trovato nel neoconservatorismo un’ideologia e una strategia cui affidarsi. In un articolo pubblicato nel 1996 su Foreign Affairs, William Kristol e Robert Kagan hanno sostenuto la necessità di "elaborare e perseguire attivamente politiche intese, in ultima analisi, a determinare un cambio di regime in paesi come l’Iran, Cuba e la Cina". Non hanno menzionato l’Iraq; ma dopo l’11 settembre le loro argomentazioni in favore del cambio di regime e della promozione della democrazia hanno trovato nuovi lettori nella Casa Bianca.
Bisogna dire, tuttavia, che è facile esagerare, come avviene spesso, l’influenza dei neocon sull’Amministrazione Bush. Il concetto di intervento preventivo in difesa dei nostri diritti ha profonde radici nella cultura politica americana, e costituisce una caratteristica specifica di una teoria politica liberal ispirata alla filosofia di Locke. Per tutto il corso della nostra storia abbiamo cercato di innalzare barriere a protezione dei nostri diritti, e abbiamo avuto la tendenza a vedere in una lunga serie di abusi dei complotti per schiavizzarci. Gli americani preferiscono passare all’azione prima che le minacce si siano abbattute sulle loro teste. Si potrebbe dire, certamente a rischio di cadere in un’eccessiva generalizzazione, che l’Amministrazione Bush, attaccando l’Iraq, ha rivelato un aspetto della psicologia politica del "Secondo Trattato" di John Locke.
In questo trattato si sostiene infatti che, per la loro stessa difesa, i popoli devono agire prima "che sia troppo tardi, e che il Male sia diventato incurabile"; inoltre, per "proteggersi dalla tirannia" i popoli devono "avere non soltanto il diritto di ribellarvisi, ma anche di prevenirla". L’intervento preventivo in difesa dei nostri diritti fondamentale è probabilmente inscritto nel nostro dna politico, esattamente come il Big Government. Senza dubbio sembra una caratteristica permanente della politica americana. Quale che sia la nostra interpretazione delle fonti della Dottrina Bush, una cosa è certa: è un modello politico ancora in gestazione, e ci sono molte fazioni, all’interno dell’Amministrazione, che si scontrano per stabilirne la portata e il significato fondamentale. L’Amministrazione impara lungo il cammino e ricorre all’improvvisazione. Non è affatto chiaro dove sia diretta.
Il più delle volte le etichette politiche ci fanno perdere di vista ciò che è veramente importante; e quando finiscono nelle mani degli "esperti" e dei politicanti possono diventare semplicemente un mezzo per screditare i propri avversari. Queste etichette sono utili soltanto se contribuiscono alla nostra comprensione della realtà politica. La riscoperta del neoconservatorismo da parte dell’opinione pubblica è quindi benvenuta, perché ci costringe ad affrontare alcune questioni fondamentali, ma ancora irrisolte, che che caratterizzano il pensiero conservatore. Contrariamente a quel che si crede di solito, il neoconservatorismo non è stato mai incorportato in un più vasto movimento intellettuale conservatore. D’altra parte era ben difficile che ciò accaddesse, perché il neoconservatorismo non rappresenta tanto una semplice reazione alla cultura antagonista degli anni Sessanta quanto una corrente sempre presente nel pensiero conservatore della nostra èra democratica, e forse persino quello più vitale. Le altre correnti del conservatorismo sono stranamente antidemocratiche. I tradizionalisti aspirano all’aristocrazia; i liberisti desiderano un governo di tecnocrati, con un’autorità alquanto limitata; e i paleoconservatori sognano vaghe utopie postmoderne. Tra tutti i contemporanei modelli teorici del pensiero conservatore, soltanto il neoconservatorismo ha firmato la pace con la democrazia americana; e se la democrazia fiorirà, altrettanto farà il neoconservatorismo. (2 fine)
Adam Wolfson
© The Public Interest – Il Foglio
(traduzione di Aldo Piccato)