Camillo di Christian RoccaLe critiche a Bush e al suo stato dell'Unione

Milano. Il discorso sullo Stato dell’Unione tenuto da George Bush martedì sera è stato il più partigiano che si ricordi, dicono i molti critici del presidente. Un discorso politico, quasi l’apertura della campagna elettorale più che l’annuale avvenimento istituzionale, ha scritto il Washington Post. Gli avversari Democratici non sono mai stati nominati, ma Bush ha scelto con cura la data del discorso, subito dopo il caucus denello Iowa, proprio per sommergere di retorica presidenziale la prima tappa della corsa che sceglierà il suo avversario del 2 novembre. "Una lista della spesa" e "una sterzata a destra", ha scritto Andrew Sullivan sul suo sito. Un elenco di cose fatte, dei successi ottenuti, senza alcuna grande idea per il futuro, critiche pesanti perché provenienti da un opinionista che è sempre stato benevolo con Bush.
John Kerry, Wesley Clark, John Edwards e Howard Dean, ovviamente, hanno criticato il SOTU, acronimo che per sta per State Of The Union. Kerry, fresco vincitore in Iowa, ha puntato sui 250 mila posti di lavoro promessi e mai arrivati. Edwards, paladino della classe medio bassa, ha preferito ricordare che lo stato dell’America bushiana è diviso a metà, da una parte i privilegiati, dall’altra il resto degli americani: "Bush non ha proposto idee che possano guarire questa ferita". "Bush favorisce gli interessi particolari", ringhia il girotondino in panne, Howard Dean. Wesley Clark, invece, da buon generale, ha puntato sulla guerra: "Non sappiamo ancora per quale motivo abbiamo invaso l’Iraq". Anche i grandi giornali liberal della costa orientale, New York Times e Washington Post, hanno criticato la performance di Bush a Capitol Hill. L’onda è arrivata fino in Europa. "Il disastro del taglio delle tasse", titolava ieri l’Herald Tribune, mentre sulla guerra al terrorismo e sulla democratizzazione del Medio Oriente il titolo era: "I fallimenti esteri di Bush". Poi i giornali francesi, certo, e quelli italiani, ma anche il Financial Times e, addirittura, il Wall Street Journal Europe, spesso molto vicino alle posizioni del presidente, non sono stati teneri. Bush, insomma, ha scontentato molta gente. Critiche, ma ovviamente ampi elogi, sono arrivate anche dalle colonne della National Review, settimanale iper conservatore ma scettico sull’uso disinvolto del deficit pubblico e sulle misure pro immigrati appena annunciate dal presidente.
Buone battute, alcune frasi azzeccate e basta. Questo è stato il discorso di Bush, secondo alcuni dei suoi amici. Ottima, per esempio, sul piano dell’effetto dialettico, la piccola trappola tesa ai parlamentari democratici quando ha ricordato loro che il Patriot Act "scadrà il prossimo anno". I democratici, ben inquadrati dalle televisioni, hanno applaudito soddisfatti. Bush, però, li ha fulminati: "Ma la minaccia terroristica non rispetterà certo questa scadenza".
Bush ha scontentato la destra del partito repubblicano sulla spesa pubblica. Non sono sembrate sufficienti le soluzioni proposte per ridurre il deficit in cinque anni (oggi è calcolato in 374 miliardi di dollari, ma dovrebbe raggiungere i 500 miliardi di dollari nel corso del 2004). Quaranta deputati repubblicani hanno chiesto al presidente e alla leadership del partito al Congresso di impegnarsi subito, e con priorità massima, per fermare l’aumento della spesa che considerano quasi fuori controllo. Gli opinionisti e i ricercatori della Heritage Foundation, uno dei più prestigiosi centri studi conservatori americani, non sono stati meno duri: "Il presidente ha usato lo Stato dell’Unione per difendere gli aumenti della spesa pubblica, e ha annunciato altri otto nuovi aumenti della spesa", ha detto ai giornali Brian M. Riedl della Heritage Foundation. Niente, invece, sui tagli della spesa. Almeno, niente di specifico. Solo un vago accenno. Eppure quello del deficit, dice l’ultimo sondaggio della Pew Research Center, è sentito come la priorità massima dal 51 per cento degli americani. L’anno scorso erano solo il 40 per cento, 35 due anni fa. Ai conservatori non va giù la riforma di Medicare, il più grande allargamento di un programma federale degli ultimi quaranta anni. Soldi sprecati, usati male, ribattono i liberal. Mai, dal 1960, la spesa pubblica era aumentata così velocemente. Per i critici è il deficit più grande di sempre, per i Bush guys, calcolandolo in percentuale al prodotto interno lordo, è più basso di quelli dell’era reaganiana (E Reagan era solito dire: "Il deficit è grande abbastanza da badare a se stesso").
I soldi sono serviti per la guerra in Afghanistan e in Iraq (389 miliardi di dollari di spesa militare, 16 per cento in più rispetto al 2002), per difendere il paese dal terrorismo e per rafforzare la sicurezza. C’era anche da affrontare la recessione e la crisi post 11 settembre. Bush ha scelto la strada del meno tasse, più medicine. Liberismo e deficit spending, insieme, possono funzionare dicono gli strateghi della Casa Bianca. Secondo i liberal no, è impossibile. Intanto non credono al Bush compassionevole. Secondo gli analisti più critici, Bush ha limato qua e là tutti i programmi interni al fine di aumentare la spesa militare. Si chiedono, infine, se fosse necessario annunciare una spesa da 23 milioni di dollari per i test antidroga nelle scuole; se fossero davvero improcrastinabili i maggiori finanziamenti alle associazioni religiose.
Secondo New Republic, settimanale un po’ neoliberal un po’ neoconservatore, non può funzionare neanche l’altra grande ambiguità del programma bushiano presentato martedì: Democrazia in Iraq e ritiro americano dal Medio Oriente. O l’una o l’altro. Per riuscire a costruire un nuovo Iraq libero c’è bisogno di maggiore coinvolgimento, di uomini e di soldi, non del ritiro. A Bush va dato il merito di aver rischiato, di aver liberato l’Iraq e di avere un ambizioso programma per il Medio Oriente, ha scritto la Washington Post, ma nel discorso ha cincischiato sulla questione delle armi di distruzione di massa mai trovate. Si è limitato a ricordare che in Iraq c’erano "programmi per lo sviluppo di armi di distruzione di massa", ma forse avrebbe dovuto spiegare un po’ meglio. Andrew Sullivan è deluso perché Bush non ha indicato una concreta direzione di politica estera. Ma, forse, la strada è ancora quella intrapresa dopo l’11 settembre, ci vuole tempo e richiede "un impegno generazionale". A Michael Ledeen, invece, il discorso è piaciuto, l’unica critica la riserva alla descrizione della situazione in Iraq. Sarebbe stato meglio, dice, se avesse sottolineato i grandi progressi ottenuti dopo la caduta del regime di Saddam.
Bush ha cercato di accontentare tutte le diverse anime del mondo conservatore, ma il giorno dopo sembrano pesare di più i corrispettivi malcontenti. I social conservative esultano grazie ai fondi federali per l’astinenza sessuale, i test anti droga nelle scuole, la retorica sull’abuso di doping nello sport e il sostegno nella battaglia contro il matrimonio gay. Ma devono sopportare la richiesta, che piace a conservatori liberisti, di rendere permanenti i tagli fiscali. La vecchia guardia repubblicana ha portato a casa la battaglia per prorogare il Patriot Act, ma continua a subire l’impeto idealista dei neocon e l’impegno presidenziale per la democratizzazione del Medio Oriente.

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