New York. C’è un candidato accusato di aver fatto l’amore e c’è un presidente sotto scacco perché non ha fatto la guerra, non questa in Iraq, figuriamoci, ma quella del Vietnam, quella dei tempi in cui fu coniato lo slogan "fate l’amore, non fate la guerra". E’ soltanto uno dei temi, il più bizzarro, della campagna elettorale 2004, tra il probabile sfidante, John F. Kerry, e il presidente uscente, George W. Bush. Ce ne sarebbero altri, la guerra che si combatte oggi in Medio Oriente, il terrorismo, la sicurezza nazionale, i lavori che scarseggiano, il deficit che avanza, le tasse, il matrimonio gay e altri ancora, ma il primo mese di elezioni primarie democratiche, quello che ha portato alla scrematura dei candidati a soli due contendenti, cioè Kerry e John Edwards, ha mostrato con ogni evidenza come il punto centrale dello scontro politico oggi in America sia l’odio. Le due parti si odiano. Non tanto i due candidati, i quali negli ultimi anni hanno quasi sempre votato insieme e hanno un background e studi comuni.
Kerry, infatti, come Bush è il discepolo di un’importante famiglia della East Coast e, come il presidente, s’è laureato a Yale. Al Senato ha dato il suo ok alla guerra in Iraq, al Patriot Act, alla legge sulla educazione scolastica, cioè a tre dei quattro grandi pilastri della presidenza Bush, dicendo no soltanto al quarto, il taglio delle tasse. Quelli che si odiano davvero stanno nelle due curve, sono i sostenitori dell’uno e dell’altro schieramento. Successe già negli ultimi anni della presidenza Clinton, allora erano più attivi i repubblicani, oggi senza dubbio i democratici. Sono le due Americhe di cui parla Stanley Greenberg, guru liberal delle campagne elettorali, che in un libro ha spiegato come gli Stati Uniti siano una nazione divisa perfettamente a metà, che quasi non si parla, che certo non si capisce. Da un lato i repubblicani, cioè i conservatori vecchi e nuovi delle sconfinate libertà americane, i libertari, i credenti e i fondamentalisti; dall’altra i liberal, i progressisti, gran parte degli intellettuali, del mondo del cinema, dello spettacolo dei media, i radical chic e gli antagonisti. Sono due Americhe entrambe profondamente americane, l’una non può reggersi senza l’altra. Le due Americhe si vedono a occhi nudi sulle cartine che i network mostrano in televisione in questi giorni di campagna elettorale. La costa Est, la costa Ovest e i grandi centri urbani sono Stati blu, a maggioranza democratica, dove Al Gore nel 2000 prevalse; tutto il resto, compresi Sud e Midwest, sono "red state", Bush country.
Le due Americhe e l’odio reciproco ricordano il caso italiano e il disprezzo che ispira Silvio Berlusconi in certi ambienti. A New York e nelle enclave liberal è quasi proibito nominare Bush, ai party di Manhattan è inconcepibile che possa prendere la parola uno che non consideri fascista l’attuale residente alla Casa Bianca e un mascalzone Dick Cheney. Non è molto diverso da quello che succede nelle terrazze romane. I radical chic sono girotondini ovunque, specie a Manhattan, l’unica città al mondo dove ancora oggi fa tutto esaurito lo splendido film di Gillo Pontecorvo, "La Battaglia di Algeri", anno 1964, recitato in arabo e francese. Qui sarebbero tutti per Dean, l’adesivo con il faccione del dottore del Vermont è quello che si vede di più per strada. Nei ristoranti chic dell’Upper West Side si incontrano eleganti signore che portano sulla giacca spillette con un Bush definito "la vera arma di distruzione di massa". L’odio si avverte. L’altra sera a un party cosmopolita, un giornalista di un importante quotidiano sosteneva che l’elezione di Arnold Schwarzenegger fosse una gigantesca ferita alla democrazia americana perché, pensate un po’, "Terminator" è un ignorante con uno solo obiettivo nella vita: avere successo. Per l’opinionista, evidentemente, il modello di vita politicamente corretto è quello di chi insegue l’insuccesso, la vita grama, la vita sfigata non come quella dei film. Non gli interessavano le idee e i programmi di Schwarzy, in realtà non li conosceva neanche, e nemmeno sapere che cosa stesse facendo adesso che è governatore eletto dai cittadini dello Stato più liberal d’America. Non entrava nemmeno nel merito, era l’odio antropologico il punto. L’unica cosa importante era il passato di Schwarzy, che da giovincello ebbe, forse, simpatie naziste. E quando al giornalista è stato fatto notare che ragionando così non si va da nessuna parte, perché sono molti i politici che in passato hanno avuto simpatie per questo o quel totalitarismo, è rimasto di sale nell’apprendere che esistessero frequentatori dell’Upper West Side che non la pensavano come lui. Così, ha girato i tacchi e, sdegnato, ha troncato la discussione.
Questo non vuol dire che in politica l’odio paghi né che i comuni cittadini di sinistra, gli average Joe di Manhattan, seguano l’esempio del giornalista in questione, sennò Howard Dean sarebbe ancora in corsa. Scriveva George Orwell nel 1945 che "uno deve appartenere all’intellighenzia per credere in cose di questo tipo, nessuna persona normale può essere così scema".
L’odio in campo, infatti, è molto più raffinato. E’ così sconfinato da essere un odio razionale. Non è una contraddizione. I liberal americani odiano così tanto il clan Bush che certo non commettono l’errore di affidare le proprie speranze al più radicale tra gli odiatori di Bush, al più arrabbiato, a chi è così accecato che finirebbe per riconsegnare la Casa Bianca a Bush. E, infatti, non votano per Dean, nonostante i soffietti dei media, né per chiunque altro abbia ricevuto il sostegno dei divi di Hollywood. Questa volta, addirittura, non vogliono sapere neanche di Ralph Nader, l’eterno presidente dei sogni. Gli elettori democratici sanno che costoro perderebbero rovinosamente, compatterebbero gli avversari, farebbero il gioco del presidente. Viceversa si affidano al meno distante da Bush, a quello che più di ogni altro gli può sottrarre voti al centro.
La corsa tra i democratici, fin qui, non è stata sulle issues, sulle questioni e sulle soluzioni ai problemi dell’economia e della guerra. Quasi non ne hanno parlato. Sono più o meno tutti d’accordo, anche quelli che votarono con Bush, che le scelte del presidente siano state sbagliate, ma non offrono progetti né visioni alternative. Chi lo ha fatto, come Dean e Joe Lieberman, chi è entrato più nel dettaglio delle questioni, in questo caso della guerra e della sicurezza nazionale, non è stato premiato, anzi. La campagna elettorale tra i democratici si è giocata esclusivamente sul fattore E, come Eleggibilità. Quello che conta è battere Bush, ABB, anybody but Bush, chiunque purché batta Bush. Il resto non interessa. Kerry è sembrato il più credibile, il più affidabile, il più rassicurante, anche perché, paradossalmente, è anche il più vicino a Bush e, quindi, agli elettori del presidente. Kerry non entusiasma, non appassiona, non scalda i cuori dei democratici, anzi è quello che piace di meno, eppure è il candidato con la faccia e la postura più presidenziali, l’eroe di guerra che potrebbe convincere il paese che i democratici non arretrano se in ballo c’è la sicurezza degli americani. Ecco perché nello straordinario capovolgimento delle carte, la sinistra americana oggi esalta le medaglie di Kerry in Vietnam, cancellando la sua successiva battaglia pacifista e, infine, critica chi quell’odiosa guerra non l’ha combattuta.
Ora che Dean non c’è più, ora che Kerry non potrà più godere del paragone con l’ex governatore del Vermont, rischia un po’ nei confronti di Edwards, perché tra i due è il giovane senatore della Carolina del Nord il più moderato, il meno radicale, quello che sembra attrarre più indipendenti e repubblicani. Ma il calendario delle primarie è stato studiato a tavolino dai boss democratici per riuscire a ottenere il più presto possibile la candidatura, intorno alla quale poi unificare il partito. E’ tardi, dunque.
Ma se il senatore del Massachusetts sarà lo sfidante, l’agenda politica è quella di Dean. L’ex governatore del Vermont ha ridato speranza ai democratici, e lo rivendica. Non si è ritirato del tutto, infatti. Il suo movimento internettiano resta, la sua straordinaria organizzazione non viene smantellata, i suoi girotondi continuano a girare per cambiare il paese, non più con un piede dentro e uno fuori il partito, ma dentro e solo dentro, per contare di più, addirittura candidandosi a elezioni locali, per avere eletti ovunque. Insomma i Deaniacs diventano una corrente di partito, i girotondi che incontrano Mastella.
Dean, nonostante la penosa performance alle urne, un merito ce l’ha e un risultato lo ha raggiunto: gli altri candidati, incalzati dalla sua apparente invincibilità, sono stati costretti a inseguirlo e a opporsi, per esempio, alla guerra che essi stessi al Congresso avevano autorizzato e condiviso. Gli argomenti di chi è rimasto sono i suoi, ma invece che urlati hanno il tono mellifluo della voce del senatore Kerry.
I repubblicani fin qui non hanno replicato, si dice che aspettino che sia certa la candidatura prima di mettere in campo la potenza di fuoco della loro macchina. Oltre alle oggettive difficoltà sulle armi e sui posti di lavoro che non si trovano, è proprio la campagna a senso unico il motivo per cui i sondaggi danno Bush come il probabile sconfitto del 2 di novembre prossimo, sia contro Kerry sia contro Edwards. In campo ci sono solo i suoi avversari, sono loro che girano il paese, che hanno già speso quasi cento milioni di dollari e goduto degli spazi dei free media, cioè della copertura gratuita offerta da stampa e tv. Ogni pomeriggio e tutte le sere, sui tre canali all news via cavo, ci sono le dirette dei comizi dei candidati democratici e le infinite discussioni dei talk show.
Non c’è contraddittorio, non c’è il bilancino, parlano solo i democratici, si parla solo dei democratici, Bush è una specie di punch ball che le prende da tutte le parti, tanto che è stato costretto all’improvviso a concedere un’intervista a Tim Russert di Meet the Press.
Il grande spettacolo della democrazia americana è proprio questo. Si gioca la partita solo nel campo democratico ma nessuno invoca la par condicio, non ci sono repubblicani che si lamentino, non ci sono conduttori che fingano di essere imparziali. Tutti prendono posizione, si sta o di qua o di là, apertamente, senza scandalo, senza isterie. Senza terzisti.
21 Febbraio 2004