New York. Quale sarà la politica estera del presidente John Kerry, se il 2 novembre riuscisse a sconfiggere George W. Bush? Kerry non dà risposte precise per paura di scontentare l’ala pacifista del suo partito oppure, dall’altro lato, per evitare di essere bollato come il solito democratico deboluccio sulle questioni di sicurezza. Ora che la corsa alla nomination si avvia trionfalmente alla conclusione, ieri si è votato in Wisconsin, Kerry dovrà spiegare agli americani che cosa vorrà fare del progetto di liberazione del Medio Oriente intrapreso da Bush come prima misura di sicurezza del suolo americano. Sono scesi in campo i grandi editorialisti in questi ultimi giorni, proprio per sapere quale sia la visione del candidato democratico rispetto al ruolo dell’America nel mondo e alle minacce del terrorismo internazionale. Kerry, dicono, non potrà continuare a girare intorno a una questione così essenziale. Domenica, in diretta tv, un giornalista gli ha chiesto se si sentisse responsabile della guerra in Iraq, visto che al Senato aveva autorizzato il presidente all’invasione dell’Iraq. Kerry non ha risposto con un sì o con un no, ma con un fumoso discorso di 478 parole, tanto che John Edwards, uno che se avesse altri sei mesi gli soffierebbe la nomination, ha avuto gioco facile nel sottolineare come quella sia stata la più lunga risposta mai sentita a una domanda cui bisognava rispondere con un sì o con un no.
Sempre domenica è stato il primo degli editoriali del Washington Post a chiedere al senatore del Massachusetts di spiegarsi meglio: "Una grande confusione circonda la posizione di Kerry sull’Iraq. Nel 1991 votò contro la prima guerra del Golfo dicendo che era necessario un maggior sostegno da parte degli americani per una guerra che lui credeva potesse essere molto costosa. Nel 1998, quando Clinton stava considerando i passi militari contro l’Iraq, ha sostenuto con vigore l’azione, con o senza alleati. Quattro anni dopo ha votato per una risoluzione che autorizzava l’invasione, ma ha criticato Bush per non aver coinvolto gli alleati. Lo scorso autunno ha votato contro il finanziamento della ricostruzione dell’Iraq ma ha detto che gli Stati Uniti devono sostenere l’istituzione di un governo democratico". Tutto non si può tenere: "I tentativi di intrecciare i fili e di giustificare tutte queste posizioni non sono convincenti", ha commentato il giornale della capitale. "Ancora più importante, Kerry dovrà chiarire quali crede che siano gli obiettivi della missione americana in Iraq". Thomas Friedman, sul New York Times, ha fatto di più, gli ha suggerito la risposta ideale per apparire credibile: "Voglio inviare un messaggio chiaro ai fedeli di Saddam e ai fascisti islamici che stanno massacrando gli iracheni che lottano per far nascere il loro primo governo democratico. E il mio messaggio per questi terroristi è: Leggete le mie labbra: se sarò presidente non abbandonerò l’Iraq".
Kerry una cosa così chiara, né in questo senso né nella direzione opposta, non l’ha mai detta. Fareed Zakaria, su Newsweek, ha scritto che il candidato dovrà spiegare la sua visione e farsi portatore di un’idea alternativa che non sia il semplice "abbasso Bush" tanto caro a Howard Dean, ma neanche uno sterile scimmiottamento delle posizioni del presidente, come ha fatto Joe Lieberman. David Brooks, sul New York Times di ieri, ha spiegato come i democratici siano divisi tra chi rimpiange l’interventismo di Truman e di Kennedy e chi, non ancora guarito dal Vietnam, segue l’esempio di Carter. La cosa più grave è che Kerry non ha deciso in quale dei due partiti stare.
18 Febbraio 2004