Camillo di Christian RoccaIl bicchiere in Iraq è tre quinti pieno. Le analisi di liberal e realisti a un anno dalla liberazione

Washington. E’ trascorso un anno dall’invasione dell’Iraq che ha portato alla caduta del regime di Saddam Hussein e alla conseguente occupazione internazionale del paese. Il 30 giugno, fra tre mesi, la Autorità provvisoria della coalizione (Cpa) guidata da Paul, detto Jerry, Bremer si scioglierà e, come previsto dagli accordi presentati all’Onu, consegnerà le chiavi dell’autogoverno agli iracheni. Il risultato, dicono a Washington, analisti liberal, conservatori e indipendenti, è straordinario per velocità e volontà, se paragonato agli anni che ci sono voluti in Giappone, in Germania e nelle Filippine.
E’ ancora difficile prevedere che cosa succederà dopo il 30 giugno, e le previsioni vanno da un governo democratico fino alla guerra civile, ma certo al termine del primo anno senza Saddam si può trarre un bilancio serio della situazione irachena. Domani se ne occuperanno i neoconservatori all’American Enterprise, i quali però sono stati preceduti la settimana scorsa dai liberal della Brookings Institution e dai realisti del Council on Foreign Relations, entrambi avversari ideologici dei neocon, ma per questo non necessariamente portati a nascondere le cose che vanno bene. Per la verità anche i neocon hanno questo atteggiamento, Bill Kristol, direttore del Weekly Standard, ha detto al Foglio e poi ha scritto ieri sul suo giornale in coppia con Robert Kagan, che "un anno dopo non si può ancora dire che gli iracheni siano salvi e irrevocabilmente consegnati alla democrazia liberale, ma certo va riconosciuto che hanno fatto passi decisivi verso questa direzione. Non solo per la Costituzione provvisoria, che è già la più liberale di tutto il mondo arabo, e neanche per la ripresa della vita quotidiana. Soprattutto ­ dice Kristol ­ perché gli iracheni hanno dimostrato di volere e di potere lavorare insieme per il loro futuro, a dispetto di quanto era stato previsto. Discutono e poi trovano il compromesso. Sembrava impossibile, ma è realtà". Michael Ledeen, in un incontro all’American Enterprise, ha ricordato come su questo punto le previsioni negative siano state tutte sballate: "I critici della liberazione dell’Iraq hanno detto per mesi che gli iracheni non si sarebbero mai messi d’accordo su una Costituzione comune perché i sunniti, gli sciiti, i curdi, le tribù, Sistani, bla-bla. Poi gli iracheni si sono messi d’accordo su un testo, ma ai critici non è bastato e hanno detto che non lo avrebbero ratificato. Quando lo hanno fatto, è stato però sminuito perché è una Costituzione provvisoria, temporanea. Insomma ogni volta che c’è una buona notizia si tende a nasconderla".
A un dibattito della Brookings Institution di Washington, Kenneth Pollack, l’ex analista delle Amministrazioni Clinton che con un suo libro aveva convinto gran parte dei liberal a sostenere l’invasione dell’Iraq, s’è prima soffermato sugli errori (errori, non manipolazioni) dei servizi segreti che hanno ingannato per primo lui, poi ha fatto un resoconto della situazione attuale: "Paghiamo ancora gli errori di programmazione, ma la partita non è affatto persa, vado davvero in collera quando sento la gente dire che l’Iraq è un fallimento, un disastro, un Vietnam, infausto e senza speranza. Sono state fatte molte cose buone e ne va dato atto sia a Paul Bremer sia all’Amministrazione. Detto questo ci sono anche parecchi aspetti negativi, credo che a oggi l’Iraq sia ancora in bilico: tra 15 anni potrebbe essere una società stabile e pluralista, un modello per l’intero Medio Oriente, ma potrebbe anche sprofondare nel caos assoluto. Credo, però, che l’uno o l’altro dipendano da noi".
Michael O’Hanlon, analista liberal e opinionista del Financial Times, ha sintetizzato la situazione irachena con una serie infinita di dati, tabelle, proiezioni e grafici che fotografano, con i numeri, gli ultimi dodici mesi e raccontano la tendenza: "Il bicchiere è tre quinti pieno", ha detto presentando il suo rapporto alla Brookings. La situazione è migliore di quanto scrivano i giornali: "L’economia e la qualità della vita sono di nuovo al livello precedente alla guerra, o forse a un livello leggermente superiore. Ma nei prossimi giorni il sistema economico riceverà 18 miliardi di dollari, che avranno effetti largamente positivi sulla fiducia e sulla disoccupazione, oggi al 45 per cento a fronte del 60 di giugno. Nelle ultime settimane ­ ricorda, dati alla mano, O’Hanlon ­ abbiamo registrato un miglioramento in alcuni indicatori, tipo l’approvigionamento della benzina, la produzione del petrolio, la disponibilità di elettricità. Indicatori che erano migliorati velocemente nell’estate scorsa, per poi fermarsi ad autunno a causa della crescita degli attentati". Secondo i dati analizzati da O’Hanlon, il problema della sicurezza è molto più complicato: "La tendenza è volta al miglioramento. La notizia negativa è il gran numero di attentati suicidi contro gli iracheni, che uccidono cento persone il mese. La notizia buona è che la sicurezza nella vita quotidiana è molto migliorata, anche se non in modo sufficiente, e nonostante l’Iraq resti certamente più pericoloso della più pericolosa città americana, come è ovvio dopo la caduta di un regime trentennale di quel tipo". O’Hanlon ha presentato anche uno studio con cui spiega che gli Stati Uniti sono costretti ad aumentare il numero delle truppe non tanto in Iraq, ma in generale. Rumsfeld era refrattario all’idea, ma ultimamente ha acconsentito a reclutarne altre 30 mila. Secondo O’Hanlon non bastano, ne servono almeno 50 mila in più. Al momento gli Stati Uniti dispongono di 33 brigate ma soltanto nel 2003/2004 ne hanno impiegate 34: "In altre parole, stiamo già rimandando truppe per la seconda volta nello stesso posto". Quanto al fronte iracheno, i dati di O’Hanlon registrano una diminuzione della metà sia dei morti americani sia degli attentati nei confronti delle forze della coalizione. Merito, dice, della nuova intelligence irachena che comincia a muovere i primi passi e a funzionare: "Ora c’è il doppio degli arresti o delle uccisioni di uomini legati al regime, rispetto alla media precendente l’arresto di Saddam. C’è solo da sperare che siano le persone giuste".
Stabilire se Iraqi Freedom sia un successo o no è controverso, anche perché c’è da mettersi d’accordo sulla definizione di successo. O’Hanlon ne ha una: "Ne sarà valsa la pena se in Iraq non ci sarà terrorismo, né uno Stato che lo sponsorizzi o che usi il suo territorio per attività terroristiche, se non ci saranno più armi di distruzione di massa irachene, se non ci saranno più genocidi interni, se non ci saranno aggressioni contro i paesi vicini e se ci sarà almeno una patina di democrazia".

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