New York. Mancano 95 giorni, poi gli iracheni si governeranno da sé. Il 30 luglio, come previsto dal calendario politico firmato da iracheni e americani sotto la vigilanza dell’Onu, l’Autorità provvisoria si scioglierà, Paul Bremer tornerà a casa e gli iracheni riavranno il loro paese dopo quattro decenni di dittatura e un solo anno di occupazione straniera. Il primo voto libero per eleggere un’Assemblea nazionale di 275 membri e le amministrazioni locali si terrà, con la supervisione dell’Onu, non oltre il 31 gennaio del 2005. Mentre qualche mese dopo (entro il 15 ottobre 2005) l’Assemblea Nazionale dovrà sottoporre a referendum popolare la nuova Costituzione definitiva. Con quel testo, entro il 15 dicembre 2005, si andrà ancora al voto, il terzo in meno di un anno, per eleggere direttamente il governo.
Paul Bremer dovrà ancora risolvere un paio di seri nodi politici, giuridici e sulla sicurezza prima di andare via, ma ha già fatto un bilancio dei risultati. La sicurezza e le stragi terroriste sono il vero problema, Ma oggi più di duecentomila iracheni si sono arruolati nel nuovo esercito e nella nuova polizia desaddamizzate, e continuano a farlo nonostante gli attentati. Un paio di giorni fa è nato il nuovo ministero della Difesa e un Comitato sulla Sicurezza nazionale con il compito di coordinare il dispiegamento delle forze irachene con i 110 mila soldati americani e le altre truppe della coalizione che resteranno in Iraq per garantirne la sicurezza. Il problema giuridico è risolto dalla Risoluzione 1511 dell’Onu che, al punto 13, "autorizza una forza multinazionale sotto il comando unificato", cioè autorizza la forza multinazionale guidata dal generale Ricardo Sanchez a rimanere in Iraq fino all’elezione diretta del primo governo. In ogni caso, all’Onu si sta lavorando per il rinnovo della 1511 o, in alternativa, a una nuova Risoluzione. Sul fronte interno, prima di andare via Bremer dovrà firmare un accordo bilaterale sulla sicurezza con gli iracheni, sul modello dei trattati ancora esistenti in Europa e in Giappone che regolano i rapporti tra i governi sovrani e le truppe americane.
La vita quotidiana è migliorata moltissimo, ha detto Bremer, e non solo rispetto ai tempi di Saddam. Oggi l’Iraq ha più elettricità di prima della liberazione. Oltre 2500 scuole sono state rimesse a posto e il calendario scolastico e universitario non ha avuto intoppi. Più di tre milioni di bambini iracheni sono stati vaccinati contro il polio e altre malattie. Con i soldi dei contribuenti americani, la spesa per l’assistenza medica è cresciuta di oltre il 30 per cento, e continua a crescere. I salari pubblici sono aumentati di dieci o trenta volte. Sono stati completati quasi 18 mila progetti privati di ricostruzione. Il tasso di disoccupazione è alto, ma è stato ridotto della metà dal giorno della liberazione e, ha detto Bremer, "probabilmente è più basso di quanto fosse prima della guerra". La nuova moneta irachena ha guadagnato il 29 per cento da quando è stata introdotta. Cominciano i primi investimenti stranieri e, a breve, l’economia sarà beneficiata dai 20 miliardi di dollari stanziati dagli americani.
Oltre un milione di iracheni ha il telefono, secondo Bremer un dato superiore a quello precendente la guerra, e il numero di nuovi utenti cresce di 15 mila la settimana. L’Iraq è tornato a essere membro della comunità internazionale, nella Lega araba, nll’Onu, nella Banca Mondiale, nel Fmi e nel Comitato olimpico. Ad Atene parteciperanno atleti iracheni, e la nazionale di calcio ha ripreso a giocare.
Ma l’orgoglio di Bremer è la Costituzione provvisoria, la più liberale del mondo musulmano. L’ayatollah sciita Sistani vorrebbe cambiarla e teme che la prossima Risoluzione Onu la recepisca così com’è. Nel corso delle settimane, però, i punti di attrito si sono ridotti a uno, e non riguardano i diritti civili. In un primo momento gli sciiti chiedevano l’abolizione del potere di veto dato ai curdi sull’approvazione della Costituzione definitiva. Ma nella lettera inviata da Sistani a Kofi Annan, questa richiesta è sparita. Ne è rimasta soltanto una: Sistani non vuole il potere di veto concesso ai due vicepresidenti, presumibilmente un sunnita e un curdo, sulle decisioni del presidente, presumibilmente uno sciita. Ahmed Chalabi, il leader laico e liberale dell’Iraqi National Congress, in queste settimane si è avvicinato agli uomini di Sistani, candidandosi al ruolo di mediatore tra le parti.

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