New York. John Kerry martedì ha vinto in altri nove Stati, John Edwards ieri si è ritirato, il partito democratico ora ha il candidato che il 2 novembre sfiderà George W. Bush. Le primarie si sono di fatto chiuse, ora inizierà la battaglia per la vicepresidenza e partirà la campagna dei repubblicani. "Una campagna lunga otto mesi", ha titolato ieri mattina il New York Times.
Lo spettacolo della politica americana, questo entusiasmante campionato per selezionare il miglior candidato possibile, è terminato martedì sera, quando si sono chiuse le urne di New York che, con la California, era lo Stato più importante di questa giornata di primarie. Alle nove in punto, la gioia dei supporter newyorchesi del senatore Kerry, riunitisi sulla 15a strada di Manhattan, nella sede dei potenti sindacati dei camionisti, è stata incontenibile. I democratici sono davvero convinti di poter battere Bush, pensano di aver trovato il candidato giusto, "un combattente" si è definito lui stesso, e sognano di riprendersi la Casa Bianca. Lo hanno urlato a squarciagola, tenendo in una mano un cartello pro Kerry e nell’altra una birra offerta dai sindacati. "The real deal", il vero affare, si leggeva dietro il palco. "It’s up to the women", dipende dalle donne la vittoria di Kerry, "A democrat for president", un democratico come presidente, dicevano i cartelli in elegante cartoncino blu. I più goliardi portavano spillette con la scritta: "Bush-Cheney No billionare left behind", nessun miliardario lasciato indietro, uno sfottò ai potenti mezzi repubblicani e alla controversa legge, votata anche da Kerry, "No child left behind", che finanzia i corsi di recupero per i ragazzi rimasti indietro con gli studi.
Kerry non c’era. Stava a Boston, nella sua città, dove ha ricevuto una telefonata di congratulazioni da Bush, ma il suo verbo è stato trasmesso nella sala attraverso un mega schermo: "E’ stato davvero un Super martedì", ha esordito il senatore del Massachusetts che ha vinto ovunque con grande margine, perdendo solo nel Vermont, il piccolo Stato del Nord-est rimasto fedele al suo ex governatore, Howard Dean, nonostante questi si fosse già ritirato. Kerry si è congratulato con Dean per aver entusiasmato tanta gente solitamente poco interessata alla politica, e ha ringraziato Edwards, l’avversario, "per aver portato nel partito una voce convincente per la causa dei lavoratori". Edwards, ha detto Kerry, "sarà un grande leader negli anni a venire", quasi a voler anticipare che non lo sceglierà come vicepresidente. I due, al di là delle continue e pubbliche testimonianze di amicizia, non si sopportano. Edwards, tra l’altro, non sembra utile alla causa di Kerry. E’ molto bravo e si è fatto apprezzare, ma Kerry non ha bisogno di un piacione per mitigare la sua patrizia puzza sotto il naso, ha bisogno, piuttosto, di un compagno forte che gli assicuri la vittoria in un paio di quegli Stati del Midwest dove la differenza tra i due partiti è minima.
"In gioco c’è una cosa più importante"
Sul palco di Manhattan si sono alternati i membri dell’establishment democratico, a cominciare da Hassan Nemazee, l’applauditissimo uomo dei soldi, un iraniano-americano accusato dai sostenitori della democrazia in Persia di essere tenero col regime degli ayatollah. I toni, sul palco, erano infuocati, l’odio nei confronti di Bush è antropologico, paragonabile soltanto a quello che i repubblicani provavano per Clinton o a quello della sinistra italiana nei confronti del Cav. E’ intervenuto, con lo stesso vigore, anche l’Attorney General, cioè il procuratore dello Stato, Eliot Spitzer, detto anche il Di Pietro charmant di Wall Street nonché probabile candidato a governatore di New York. A un politico locale è scappata di bocca la verità, la cosa che ogni democratico pensa, "in gioco non c’è l’elezione di Kerry, ma una cosa più importante: la sconfitta di Bush".