Milano. Abbiamo chiesto a Gary Schmitt, direttore del Project for the New American Century (Pnac), uno dei più tenaci sostenitori dell’intervento americano a Baghdad, di spiegarci che cosa stia succedendo in Iraq un anno dopo l’invasione, non tanto e non solo dal punto di vista militare. Lo spunto di riflessione è un altro, questo: se la guerra, come si dice, è la continuazione della politica con altri mezzi, le democrazie moderne sono in grado di usare questi mezzi "altri"? Oppure sono costrette, per la loro stessa natura, che è legata al ciclo elettorale, al rapporto con i media e al sentimento dell’opinione pubblica, a combattere "guerre leggere", a basso costo, finalizzate non tanto a sconfiggere il nemico, ma a conquistare il cuore e le menti dei popoli? Esiste, in sintesi, un modo politicamente corretto per combattere una guerra, come gli anglo-americani hanno fin qui tentato di fare in Iraq? Per dirla più chiaramente: parlare di operazioni di polizia internazionale, forze multilaterali, guerre tecnologiche, danni collaterali, peace keeping o peace enforcing, invece che di guerra, è soltanto un artificio lessicale oppure riflette, giusta o sbagliata che sia, una reale incapacità dell’Occidente?
Il Project for the New American Century è il minuscolo centro studi di Washington fondato da Bill Kristol, direttore del Weekly Standard, e da Gary Schmitt. L’istituto deve la sua notorietà a un documento del 1998, con il quale un gruppo di intellettuali neoconservatori chiese a Bill Clinton di dare seguito alla sua politica di cambio di regime in Iraq. Alla vigilia della seconda guerra irachena, per gli amanti della teoria dei complotti questa lettera aperta al presidente è diventata la prova della cospirazione segreta e misteriosa di una lobby di guerrafondai. Eppure nessuno, per esempio, ricorda che il Pnac ha promosso due appelli bipartisan, firmati dai neocon e da diversi esponenti dell’Amministrazione Clinton, con i quali ha suggerito un approccio multilaterale al dopoguerra iracheno.
Schmitt, raggiunto a Washington, è interessato al modo in cui le moderne democrazie affrontano i conflitti: "Questi sono temi che preoccupano molti strateghi militari e diversi politici americani, ma la mia impressione, almeno per quanto riguarda gli Stati Uniti, è che queste preoccupazioni siano esagerate. Anche dopo i pasticci di questi giorni, i sondaggi indicano che, se necessario, gli americani manderebbero in Iraq più truppe, non le ritirerebbero affatto. Gli Stati Uniti restano molto determinati e sono disposti a subire delle perdite, se si convincono che i capi abbiano un piano per riuscire nell’impresa e se credono che la causa sia giusta".
Secondo Schmitt anche l’influenza dei mass media è sovrastimata: "Una volta che l’opinione pubblica si abitua a un certo tipo di informazione, se vuole farsi un’idea, tende a non dare più molta importanza a quello che sente o legge. Viceversa nessun candidato repubblicano avrebbe vinto una elezione negli ultimi cinquant’anni".
Sostiene Gary Schmitt
C’è altro a confermare la tesi di Schmitt: "Una volta che in campo c’è un esercito non di leva, il numero delle persone impressionate dalla guerra è minore. Gli americani si preoccupano ancora per chi sta nell’esercito, ma solo un po’ di meno visto che i propri figli sono al sicuro". Questa è una delle differenze con il Vietnam, per esempio. Allora c’era la leva obbligatoria, ora l’arruolamento è volontario anche se a Washington c’è chi comincia a parlare di coscrizione. "E’ interessante notare dice Schmitt come avete reagito voi italiani alla morte dei vostri soldati, altri si sono comportati in modo differente. Le democrazie possono reagire in modi diversi di fronte a una guerra".
Bush ha un solo modo per perdere le elezioni, dice Schmitt, "se agli elettori dà l’impressione di non avere un piano ragionevole per vincere". Per questo motivo, "man mano che si avvicinano le elezioni ha bisogno di impegnarsi di più, non di meno". Kerry, invece, "alla sinistra dice che vorrebbe internazionalizzare le cose, ma forse è soltanto un modo moderato e soft che gli consente di non dire ‘ritiriamoci’, cosa che sarebbe irresponsabile e non politica".
Quanto all’Iraq, Schmitt sostiene che "avevamo abbastanza truppe per far cadere Saddam, ma non sufficienti per sostituire il suo regime. Per stabilizzare e pacificare un paese devi essere in grado di controllare i confini, sconfiggere i ribelli, difendere le fonti di approvigionamento e le postazioni militari. Abbiamo fatto un enorme errore iniziale, dopo la caduta di Saddam, rimandando un ingresso in forze nel triangolo sunnita. In questo modo abbiamo consentito ai ‘cattivi’ di organizzarsi e di riguadagnare fiducia, dopo che si erano sentiti sconfitti sul campo di battaglia convenzionale".