Camillo di Christian RoccaI liberal americani non mollano e chiedono più truppe & democrazia

Leggete queste due frasi e provate a indovinare quale sia di George Bush e quale quella pronunciata da John Kerry, il suo sfidante liberal alle elezioni del 2 novembre. La prima: "In Iraq dobbiamo avere successo. Semplicemente non possiamo consentire che diventi uno stato fallito. Sarebbe una vittoria per l’estremismo, ci sarebbero nuovi pericoli in Medio Oriente e un terreno fertile per il terrorismo antiamericano. Per riuscire nell’impresa avremo bisogno di un maggior numero di soldati". La seconda: "L’impegno americano per la libertà in Iraq è coerente con i nostri ideali ed è nei nostri interessi. L’Iraq sarà un paese pacifico e democratico oppure sarà di nuovo una fonte di violenza, un rifugio per il terrore e una minaccia per l’America e per il mondo". La seconda frase è di Bush, la prima frase è di Kerry, il candidato democratico alla presidenza che un paio di giorni fa, intervistato da Chris Matthews per Hardball, ha detto che "possiamo ancora trovare le armi di distruzione di massa".

A differenza di quanto avviene in Europa, e in Italia in particolare, in America accade l’opposto. E’ lo schieramento di centrosinistra a chiedere di inviare più truppe in Iraq, mentre è la Casa Bianca a dire che in fondo bastano quelle che ci sono già sul campo. L’eccezione, come spesso accade, è costituita dai neoconservatori riuniti intorno alla rivista The Weekly Standard (vedi articolo di Reuel Marc Gerecht pubblicato a pagina III). Fin dal primo giorno di Iraqi Freedom i neocon hanno avvertito che 135 mila uomini sarebbero stati pochi per ridare fiducia a un paese uscito da 35 anni di regime del terrore. Ora il Weekly Standard chiede addirittura le dimissioni di Donald Rumsfeld. Sul fronte della sinistra, bisogna andare verso le estreme, dalle parti di Ralph Nader, per trovare uno Zapateros. Dal basso della percentuale di voto cui è accreditato, intorno al tre per cento, Nader è l’unico a chiedere il ritiro dei marine dalla Mesopotamia. Non lo segue neanche l’ex idolo delle folle radical chic, Howard Dean.
Joe Lieberman oggi sarebbe il vicepresidente di Al Gore se nel 2000 poche centinaia di elettori della Florida non avessero sbagliato a bucare la scheda elettorale, ma oggi sostiene l’iniziativa di Bush senza freni e, addirittura, ha proposto l’istituzione di un Consiglio bipartisan formato dai membri del gabinetto di guerra della Casa Bianca e dai leader repubblicani e democratici per discutere insieme, ogni settimana, sul da farsi e per mostrare alle "nostre truppe al fronte" la solidarietà dell’intera comunità politica.
I democratici, specie i clintoniani, sono i più impegnati nel vincere il dopoguerra iracheno. E’ sufficiente farsi un giro al loro principale centro studi, la Brookings Institution di Washington, per capire quanto e con quale serietà. Lunedì si è tenuto un forum dal titolo: "Vincere la guerra in Iraq – Strategia per il successo sul campo di battaglia e sul fronte interno". Ospite d’onore, Lieberman. Ma con lui c’erano anche Kenneth Pollack e Michael O’Hanlon.
Pollack, ai tempi di Clinton analista della Casa Bianca e della Cia sugli affari iracheni, è l’autore di "The Threatening Storm ­ The case for invading Iraq", il libro che più di ogni altro ha convinto i liberal a impegnarsi per il cambio di regime a Baghdad. In seguito al non ritrovamento delle armi di sterminio, che Pollack ­ come tutti ­ credeva ci fossero, lo studioso clintoniano ha ammesso che avrebbe scritto il libro in modo diverso, ma il punto è che cosa fare adesso.
Secondo Pollack la prima cosa è restaurare la fiducia del popolo iracheno, sentimento che il caos delle ultime settimane ha contribuito ad affievolire: "Dobbiamo dargli sicurezza", ripete Pollack come se fosse un mantra. Dalla sicurezza dipende tutto il resto, senza sicurezza non ci può essere ricostruzione, rilancio dell’economia, processo democratico, vita normale. La sicurezza, spiega Pollack, ha a che fare con il numero delle truppe schierate sul terreno e dalla velocità con cui verranno impiegati i rinforzi: "Quando dico truppe, intendo truppe americane perché per ora nessun altro manderà soldati in Iraq. Dobbiamo utilizzarle per strada, abbiamo bisogno che forniscano sicurezza agli iracheni. Allo stesso tempo abbiamo bisogno che addestrino le forze armate locali. Adesso le forze di sicurezza irachene non sono in grado di affrontare il compito. Ma è ovvio che prima o poi dovranno farlo, e visto che non possiamo tenere le nostre truppe lì per sempre, prima inizieremo ad addestrarle prima le potremo mandare in giro a fare i compiti che le spettano". Nato e Onu, dice Lieberman, potrebbero giocare un ruolo importante ma, certo, "non correranno per inviare truppe in Iraq, per cui nel breve termine la stabilità e la sicurezza dovranno essere garantite dagli americani, da un numero maggiore di americani, e dalle forze di sicurezza irachene".
Michael O’Hanlon, editorialista del Financial Times, cura per la Brookings un "Iraq index", un modello statistico aggiornato ogni tre giorni che misura le condizioni di vita nell’Iraq desaddammizzato. I dati raccontano un altro paese rispetto alle cronache di sangue che leggiamo sui giornali: c’è maggiore assistenza sanitaria, ci sono più programmi scolastici, miglior approvvigionamento di acqua, di elettricità eccetera. Tutto questo, spiega O’Hanlon, è messo in pericolo dall’aumento della violenza di questi giorni: "Stiamo affrontando quella guerriglia urbana che temevamo di dover combattere nella scorsa primavera, ma affrontarla adesso è certamente peggio". Non tanto dal punto di vista militare, ma da quello del simbolismo che una guerriglia di questo tipo rappresenta.
Il senatore Lieberman e i liberal della Brookings sostengono, come i neocon, che il più grande errore del dopoguerra è stato quello di non aver affrontato per tempo e con la forza i seguaci di Saddam, quando la battaglia sarebbe stata vista come parte dell’operazione per cacciare il sanguinario dittatore: "Allora gli iracheni sostennero i nostri sforzi, ora sono più impazienti", dice O’Hanlon. Secondo Pollack la grande maggioranza degli iracheni "sembra stare ancora dalla nostra parte ma, certo, ogni settimana che passa le cose peggiorano".
I punti critici sono Fallujah e Najaf. O’Hanlon, pur preoccupato per quello che potrebbe accadere nella città santa degli sciiti, resta ottimista. Il leader ribelle, Moqtada Al Sadr, ha scarso seguito ed è osteggiato dalle alte gerarchie sciite. Più complicata la situazione a Fallujah, dove si concentrano i fedeli del dittatore. Qui sta la vera differenza di questi giorni tra l’approccio neocon e quello liberal, con la Casa Bianca che sta in mezzo. I neocon credono che l’assedio della città non possa continuare e pensano che cedere alle richieste politiche dei nostalgici del rais sia un errore madornale. Meglio dunque, con tutte le cautele, affrontare subito militarmente quei 2 o 3 mila miliziani asserragliati a Fallujah. O’Hanlon, invece, crede che la soluzione militare sia da evitare non perché i marine non sono in grado di affrontarla. Tutt’altro: "Le nostre truppe sono perfettamente addestrate alla guerriglia urbana". I fedain di Fallujah non sono i soli, altrettanti guerriglieri sono sparsi per tutto il triangolo sunnita, Baghdad compresa. Ma è dal punto di vista delle relazioni pubbliche con il popolo iracheno che, secondo lo studioso della Brookings, non conviene usare la forza. I media racconterebbero, e gli iracheni vedrebbero, americani che uccidono civili iracheni. La strategia suggerita dai liberal è quella di aumentare i pattugliamenti congiunti di iracheni e americani per le strade delle città. Solo così, gradualmente, si potrà fiaccare la resistenza degli estremisti.

Il trasferimento dei poteri
Poi c’è la questione politica e del trasferimento dei poteri agli iracheni. Lieberman sostiene "che la cosa più importante sia quella di trasferire, il 30 giugno, la sovranità agli iracheni e mantenere, dunque, la promessa" fatta a novembre. Il senatore non crede che la temporanea limitazione di sovranità annunciata dalla Casa Bianca e dall’inviato dell’Onu costituisca un problema: "E l’ayatollah Sistani a non voler affidare grandi poteri a un governo non eletto". Pollack sostiene che agli iracheni non interessi la sovranità in sé: "Si preoccupano piuttosto dell’autorità amministrativa". E’ importante trovare un governo provvisorio che possa godere della fiducia degli iracheni, piuttosto che un governo di cui si fidino gli americani. La democrazia, dice Pollack, non è il miglior sistema in sé, è quello che più di ogni altro potrà produrre stabilità e prosperità in Iraq.

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