Una strategia per l’Iraq, si intitola così l’articolo scritto ieri sul Washington Post dal candidato democratico anti Bush, John Kerry. Il senatore del Massachussetts, cioè la speranza del centrosinistra europeo, non è uno Zapatero né uno del correntone né un riformista pentito. Kerry è più simile a Tony Blair che a Massimo D’Alema. A suo tempo votò per la guerra in Iraq, mentre ora che la coalizione si trova in difficoltà non scarica le responsabilità sul suo avversario. Kerry invece tiene a sottolineare che sta sul fronte della sinistra antifascista, dalla parte di chi non cede alla minaccia del nemico: "Gli estremisti che attaccano le nostre forze devono sapere che non riusciranno a dividere l’America né a fiaccare la determinazione americana né a costringere un ritiro prematuro delle truppe degli Stati Uniti. Il nostro paese è impegnato ad aiutare gli iracheni per costruire una società stabile, pacifica e pluralista. Non importa chi sarà eletto presidente a novembre, in ogni caso noi continueremo questa missione". Per fare questo, e per ridurre al minimo le possibilità di fallimento, Kerry scrive che "dobbiamo usare completamente le risorse che abbiamo. Se i nostri comandanti militari chiedono più truppe, dobbiamo mandargliele". Kerry ovviamente critica anche Bush: "Il nostro uso della forza deve essere legato a un obiettivo politico più complessivo della semplice cacciata di un regime". Bush, spiega Kerry, ha avuto "parecchi piani per una transizione democratica, ma ciascuno di essi, dopo che si è dimostrato inadatto, è stato abbandonato". Ora, ricorda il candidato democratico, c’è la data del 30 giugno per il ritorno della sovranità agli iracheni, ma non c’è ancora un accordo su chi prenderà il potere. Kerry non invoca l’Onu, perché sa, a differenza della sinistra italiana, che l’Onu in Iraq c’è già. Scrive, infatti, che "il rappresentante Onu Lakhdar Brahimi sta sviluppando una formula per un governo provvisorio che ogni singola fazione irachena possa accettare. E’ fondamentale che Brahimi compia la sua missione". La proposta di Kerry è questa: "Gli Stati Uniti potranno dare una mano a Brahimi dicendo già adesso che sosterremo (Kerry usa appositamente la prima persona plurale, ndr) qualsiasi suo piano che si sarà guadagnato il sostegno dei leader iracheni". Kerry, che è più multilateralista di Bush, spiega che si dovrà rinnovare lo sforzo per attrarre un sostegno internazionale che, per Kerry, non deve essere a parole ma "nella forma di più truppe sul terreno". L’avversario di Bush invoca il coinvolgimento della Nato, anche se l’Iraq non rientrerebbe nelle competenze territoriali dell’Alleanza atlantica, per dare vita a "un’operazione per l’Iraq sotto la guida di un comandante americano". Alle Nazioni Unite, Kerry affiderebbe, come già è affidata, la gestione della transizione politica e, insieme, quella economica e sociale. "La responsabilità della sicurezza deve rimanere in mano all’esercito americano, con l’aiuto della Nato fino a che avremo una forza di sicurezza irachena pienamente preparata a prendersi la responsabilità".
Un’America diversa
I giornali americani, anche i più liberal, raccontano un’America diversa da quella che si legge sui giornali italiani a proposito dell’inchiesta sull’11 settembre. Il primo editoriale del Washington Post di ieri, quello che dà la posizione del giornale, diceva che "leggendo il memorandum nelle sua interezza è dura sostenere, come fanno gli oppositori di Bush, che sia la smoking gun che prova come l’Amministrazione stesse dormendo prima dell’11 settembre". Secondo il Washington Post è "ingiusto e non realistico". Certo, scrive il giornale, il memo conteneva avvertimenti che avrebbero dovuto spingere il presidente a fare di più. Ma è David Brooks, editorialista del New York Times, a spiegare bene la questione. Venti anni fa, ha scritto ieri Brooks, il segretario di Stato di Ronald Reagan, George Shultz, disse in un famoso discorso che combattere una guerra al terrorismo significa avere a che fare con l’incertezza. I terroristi operano al di fuori delle regole normali e i loro attacchi sono difficili da anticipare, per questo "le nostre risposte dovrebbero andare oltre la difesa passiva fino a considerare azioni preventive, precauzionali e di rappresaglia. Il nostro obiettivo deve essere prevenire e scoraggiare atti terroristici futuri". Secondo Brooks "non possiamo attendere quelle prove definitive che servono in un processo".
Il segretario alla Difesa di Reagan, Caspar Weinberger, scrive ancora Brooks, la pensava in modo diverso e diceva che "l’incertezza avrebbe dovuto consigliarci maggiore cautela". Il paradosso è, conclude Brooks, che se si guarda alla Commissione che indaga sull’11 settembre sembrano tutti schultziani, perché sia Clinton sia Bush sono accusati di non essere stati abbastanza aggressivi contro i terroristi. Se, invece, si dà un’occhiata al dibattito sull’Iraq gli stessi diventano weinbergiani e in questo caso, in mancanza di una prova regina, dicono che l’America avrebbe fatto meglio a essere più cauta.