Milano. Penn Kemble è iscritto ai Social Democrats, piccolo partito americano affiliato all’Internazionale socialista, ha lavorato per otto anni nell’Amministrazione Clinton, ora è senior fellow a Freedom House, centro studi fondato da Eleanor Roosevelt. Kemble si occupa di sviluppo della democrazia e della libertà, e per questo i suoi avversari lo definiscono un "neocon dal volto umano". Steven Cook, invece, è studioso di riforme politiche in Medio Oriente al Council on Foreign Relations, la massima istituzione di politica estera americana, indipendente ma con tendenza realista. Il Foglio ha esteso anche a loro le domande sul rapporto tra le democrazie moderne e la guerra. Abbiamo chiesto, insomma, se condividessero l’analisi secondo cui alla base delle recenti difficoltà della coalizione in Iraq ci sia una certa incapacità dell’Occidente democratico ad affrontare guerre costose e pericolose e feroci. Secondo Kemble, in Iraq non c’è una preoccupazione di questo tipo: "I nemici e i gruppi terroristici, in Iraq e nel resto del mondo, hanno dimostrato una crudeltà e un cinismo così grandi che hanno reso gli americani disposti ad assumersi la responsabilità di parecchie vittime, molte delle quali inevitabilmente civili, per ottenere la vittoria decisiva. Ovviamente continua Kemble dobbiamo evitare che un alto numero di vittime civili irachene possa danneggiare la campagna".
Il rischio è alto, ed è proprio il motivo per cui le truppe americane non entrano a Fallujah per sedare la rivolta delle squadracce fedeli a Saddam. Sia Penn Kemble sia Steven Cook sono convinti che sia stato un errore concedere ai seguaci del rais la possibilità di riorganizzarsi nel triangolo sunnita. Ora, dice Kemble, "una campagna militare contro gli insorgenti deve guadagnarsi una significativa cooperazione della popolazione. La nostra esperienza in America centrale dimostra come la forza militare rispettosa dei diritti umani della popolazione civile riesce a essere molto più efficace, anche in termini strettamente militari".
Kemble spiega al Foglio che "i guerrasantieri iracheni certamente credono di rivivere l’esperienza del Tet". Pensano, insomma, di essere in grado di influenzare l’opinione pubblica americana come ai tempi del Vietnam: "Hanno torto per diversi motivi. In America non hanno nessun ‘compagno di strada’, neanche i gruppi estremisti più squilibrati inneggiano alle armate al Mahdi Army, qualunque cosa esse siano. L’undici settembre ha convinto molti americani che questi fanatici prima o poi ci attaccheranno da qualche parte. Molto meglio che attacchino i marines dentro i carriarmati a Fallujah, piuttosto che in America la gente dentro i treni e gli aeroplani. Non dimentichiamoci che ci aspettavamo 5 mila vittime americane, a causa delle armi di distruzione di massa. Siamo lontanissimi da quella cifra. E, in ogni caso, va notato che mentre aumentano gli attacchi, nei sondaggi aumentano anche i numeri del presidente Bush".
Questo non vuol dire che non siano stati commessi errori. Tutt’altro. Kemble ricorda che gli americani non hanno avuto una rete efficiente di iracheni con cui lavorare, sia sul fronte militare sia su quello politico. Nel nuovo libro di Bob Woodward c’è scritto che la Cia in Iraq aveva soltanto quattro agenti segreti: "Avevamo bisogno di una quinta colonna dentro l’Iraq prima della guerra, e una squadra di agenti che aiutasse a governare il paese nel dopoguerra. Se Ahmed Chalabi non ha funzionato, avremmo dovuto trovarne altri. Invece niente".
Sostiene Steven Cook
Anche Steven Cook crede che le "moderne democrazie sono in grado di fare la guerra in modo spietato, ma solo se ci sono le giuste condizioni". La difficoltà attuale, dice Cook al Foglio, "dipende più dalla goffaggine della diplomazia americana, dall’esagerazione della minaccia delle armi di sterminio, dalla variazione delle ragioni della guerra, e meno dall’invasione e dall’occupazione in sé. Se ci fosse stato un consenso internazionale l’attuale gestione della guerra sarebbe più facile. Detto questo, c’è una certa purezza intorno alla guerra giusta, concetto che ormai fa parte dell’etica delle democrazie moderne e che richiede maggiore attenzione se di mezzo ci sono i civili. Ma non credo che questa specie di correttezza politica possa condurci alla sconfitta militare, nessun gruppo di guerriglieri iracheni sconfiggerà gli Stati Uniti, ma certo è politicamente più difficile combattere una guerra di questo tipo a causa degli standard più alti cui si devono attenere gli eserciti delle nazioni democratiche".
Steven Cook crede, infine, che la recente scelta di coinvolgere nel processo politico iracheno i membri del partito Baath meno compromessi col regime sia arrivata troppo tardi, nonostante gli alleati arabi l’avessero consigliata da molto tempo. I neocon erano contrari, così come non vedono di buon occhio l’ultima novità: a causa dell’intervento dell’Onu, il primo luglio la sovranità irachena sarà limitata. Commenta Cook: "I neocon sono stati assaliti dalla realtà della politica araba".