Camillo di Christian RoccaSindrome Vietnam? Speriamo di no, per gli iracheni

Vietnam Syndrome. Il grande fantasma quarantennale della politica americana, la linea d’ombra interiore della tentazione egemone e imperialista, la sfiducia alimentata da stampa e intellettuali contro trasparenza ed efficacia delle decisioni del presidente comandante in capo, e dei militari mandati in guerra. Gli onori dei veterani all’atra muraglia che a Washington porta scolpiti i 47.413 americani caduti combattendo, e gli altri 10.785 che trovarono la morte in "Nam". I caucus dei Vietnam War Veterans Against the War, movimento di cui fu pioniere l’eroe di guerra John Kerry, con la sua deposizione alla commissione Esteri del Senato del 22 aprile 1971, "mai più uno di noi morto per l’errore di un presidente". E mille altre cose ancora, l’illusione che l’America fosse spezzata per sempre e l’ipocrisia sulle conseguenze del ritiro, la scoperta di un mondo che esplodeva invece che pacificarsi, i conti dopo qualche anno con una "nuova" America.
Bisogna fermare per qualche istante la macchina mediatica della campagna elettorale americana e del duro scontro politico in atto in Europa sull’Iraq, fermarsi e cercare di capire che cosa davvero possa e voglia significare, "l’Iraq come il Vietnam". Se sia appropriato, stante che naturalmente nessuna storia si ripete eguale. E se poi davvero siano state positive, le conseguenze del Vietnam. Per l’America, per il Sud-est asiatico, per il mondo. Chi fin dal primo momento è stato contrario a Iraqi Freedom e magari prim’ancora a Enduring Freedom in Afghanistan, da anni che evoca il fantasma. Ma non è di questo, che si discute. Il problema è un altro. Se cioè questi primi 20 giorni di aprile del 2004 a Fallujah e Najaf, se le oltre 100 vittime militari americane segnino un cambio di fase paragonabile a quello rappresentato nel gennaio del 1968 dall’offensiva del Tet, quando l’esercito popolare vietcong scatenò l’attacco contro 44 città del Sud giungendo persino a penetrare nell’ambasciata americana a Saigon. Dissolvendo nel nulla l’ottimismo sin lì ostentato dal generale William Westmoreland, spingendo verso il baratro la presidenza di Lyndon Johnson, e il Congresso ad aprire un’inchiesta sui fatti realmente accaduti 4 anni prima nell’incidente del golfo del Tonchino, e giù giù in una spirale solo effimeramente spezzata dall’elezione di Richard Nixon  "pace con onore, non sarò il primo presidente ad aver perso una guerra"  poi messa alle corde dal leak alla stampa dei Pentagon Papers, dritti fino al Watergate. Qualche segno c’è, ad attestare il ritorno della sindrome. Giorni fa, per la prima volta dall’11 settembre due avieri dell’Air Force hanno oltrepassato la frontiera per rifugiarsi in Canada, dichiarando che "essere militari professionisti e non di leva non obbliga a obbedire a ordini sbagliati". Non succedeva dalle cartoline di precetto bruciate nei campus, con migliaia di processi aperti che fu Jimmy Carter a sanare.

Paragoni tirati per i capelli
Chi conosce i testi sacri di storia della guerra del Vietnam, tipo quello di Charles Kamps pubblicato in Italia da Gremese opppure lo Stanley Karnow di Rizzoli, chi ha letto "La via del Vietnam" di William Bundy e "La posta in gioco" di George Ball, i due estremi, l’uno a favore e l’altro a dissentire dall’"involvement", sa che obiettivamente i paragoni sono tirati per i capelli. I sondaggi attestano ancora ieri che George Bush è considerato dagli americani tra i 5 e gli 8 punti percentuali più meritevole di fiducia, quanto a politica estera e guerra al terrorismo. E’ vero, la stampa liberal e i libri "Bush-hatred", ispirati a una delegittimazione personale estrema che sa quasi di casa nostra, riecheggiano per molti versi i servizi che, dopo il Tet, Walter Cronkite e Peter Arnett cominciarono a riversare nelle case degli americani. A volte ricorrendo a balle stratosferiche, come Arnett con la sua famosa: "Hanno dovuto radere al suolo Hué, per riprenderla", attribuita a un comdandante americano ma mai pronunciata. O la storica: "D’ora in poi potremo solo pensare a come uscirne ritirandoci con onore", di Cronkite dopo la vittoria (e non la sconfitta) di Khe San. C’era da sperare che i due fenomenali volumi di Peter Braestrup  "The big story"  la più completa ricostruzione delle balle di guerra cui la stampa liberal ricorse per spezzare il morale americano, fatta da chi le aveva impunemente usate quand’era stato il suo turno ai microfoni, tranne pentirsene nella "nuova" America reaganiana, sarebbero stati manuale obbligato per tutti i corrispondenti di guerra. Ma non è così, la guerra al terrorismo è ancora più insidiosa di quella al mito del vecchio Ho e dei suoi vietcong.
Detto questo, dei segni ci sono e sarebbe sciocco sottovalutarli. Sulla conservatorissima National Review, uno dei maggiori storici militari americani ha dovuto prendere carta e penna e rispondere ai lettori che iniziavano a sostenere il paragone: "Siamo nel caos, non nel Vietnam". Su Slate, David Greenberg, che insegna Scienze politiche a Yale ed è uno dei più apprezzati storici dell’era Nixon, condanna "gli abusi" dell’accostamento al Vietnam, per al contempo concludere che "l’annuncio di Bush padre vinta la prima guerra del Golfo, ‘abbiamo cancellato la sindrome Vietnam una volta per sempre’, è stato in effetti prematuro, visto che ancora una volta iniziamo a porci il problema se l’uso delle forze armate sia proporzionato a un fine ottenibile, in termini militari e politici". Rivolgiamoci allora a chi all’epoca spese tutta la propria credibilità e cinismo nel costruire gli accordi di Parigi, che nel gennaio 1973 segnarono l’avvio del disimpegno degli americani dal Vietnam, e che sfociarono in due primavere nella caduta di Saigon. Nella sua ultima conferenza per businessmen americani interessati alla Cina, Henry Kissinger respinge risolutamente la "Nam Syndrome". "Bush e soprattutto molti dei suoi consiglieri hanno una solida preparazione risalente agli anni della Guerra fredda, John Negroponte era responsabile del National Security Council nei miei anni, fu lui a gestire la fase più delicata del disimpegno americano mentre aprivo alla Cina. I democratici dell’Amministrazione Clinton erano invece ancora imbevuti del complesso vietnamita, hanno sempre continuato ad altalenare pericolosamente tra uso della forza e resipiscenza quando si trattava di colpire a fondo".
Niente Vietnam, per Kissinger. Lui su Iraqi Freedom non si è mai scaldato, puntando al prevalere dei "realisti" come lui sugli idealisti wilsoniani che credono all’esportazione della democrazia. Ma il nome di Negroponte getta luce in una direzione un po’ diversa da quella suggerita da Kissinger. Fu Negroponte, a gestire la massiccia smobilitazione del mezzo milione di marines prima presenti in Vietnam, in cambio di massicce iniezioni di denaro e armi al regime di Van Thieu. Ma vengono i brividi a pensare che fu lui a inventare il congedo in una settimana di diecimila militari americani che vennero immediatamente assunti come "civili" dall’ambasciata a Saigon, se si pensa che oggi Negroponte è stato scelto per divenire ambasciatore a Baghdad, alla testa di una legazione da tremila dipendenti che qualche assonanza con quel modello di ritirata lo provoca anche nella mente più scettica.
A che cosa portò, la sindrome vietnamita, gli ultimi elicotteri americani che si levavano tra la disperazione di migliaia di sudvietnamiti quel 30 aprile 1975? Nel breve periodo, il tanto svillaneggiato scenario dell’effetto-domino, che ispirava la teoria del "containment" anticomunista nel Sud-est asiatico, si rivelò più che corretto. Cambogia e Laos finirono anch’essi sotto il dominio comunista. L’Unione Sovietica esibì una maggiore propensione all’intervento, dall’Afghanistan all’America centrale all’Africa orientale. Le fughe in massa dal Vietnam del Sud superarono il milione di persone verso la sola Thailandia e via mare, dove perirono, si stima, tra i 50 e i 100 mila boat people. I soli Stati Uniti accolsero circa 750 mila viet del Sud, più di un milione gli altri paesi occidentali. Nei due anni successivi alla caduta di Saigon, le vittime civili dell’olocausto nel Sud-est asiatico  tra khmer rossi, esecuzioni, e terrificanti condizioni dei campi di rieducazione in cui furono internati più di due milioni di sudviet  furono almeno il doppio dei 50 mila civili stimati come vittime dei 10 anni di maggior coinvolgimento americano, tra il 1965 e il 1974. Tante, tantissime, le vittime dei raid aerei americani: ma sempre meno di un’ottavo rispetto ai civili tedeschi caduti sotto le bombe tra il ’43 e il ’45. Dovevano passare molti anni, fino a Clinton, che nel 2000 ritornò in visita in Vietnam, prima che nello splendido "A Better War" di Libbs Sorley l’ex generale vietcong Pham Xuan An avesse l’onestà di osservare "tutto quel nostro parlare di liberazione, venti-trent’anni fa, tutti i complotti, tutti i cadaveri, tutti gli inganni, hanno reso questo paese immiserito e a pezzi, dominato da una banda di crudeli e paternalistici filosofi semianalfabeti".
Per l’America, fu un trauma profondo. A cui si affiancava l’addio alle istituzioni monetarie di Bretton Woods e alla convertibilità del dollaro, alla rivolta dell’Opec dei primi anni Settanta, alla stagflazione e a quel senso di desolazione nazionale che portò all’umiliazione dei 444 giorni di sequesto del personale diplomatico americano a Teheran, l’epilogo della "diplomazia delle noccioline" di Jimmy Carter premio Nobel per la pace. Ma ciò che tutti i libri di storia racconteranno è che il containment aveva fondamento, tanto è vero che l’Unione sovietica ritirò su la testa, mentre la Cina sceglieva saggiamente l’inizio di una strada che l’avrebbe condotta alla sua vertiginosa crescita odierna, proprio per la consapevolezza di non poter sfidare il sia pur provato gigante americano. Alla fine, fu alla muscolosa politica di Ronald Reagan e al suo massiccio piano di riarmo convenzionale, nucleare e di guerre stellari, che gli americani tornati a credere in se stessi e al proprio ruolo nel mondo affidarono il compito di regolare i conti una volta per tutte con il comunismo. La grande ondata terzomondista che afferrò scuole, università e fabbriche nei terribili anni Settanta europei sbagliò in pieno i suoi conti, "dieci, cento mille zio Ho" portò molti alla droga e qualcuno al terrorismo. Ma la minaccia da sventare c’era, e l’America ne ebbe ragione anni dopo, a modo suo.

La ripresa delle forze armate
Questo insegna, il paragone tra Iraq e Vietnam. Disegna uno scenario di cui si vedono alcuni elementi, a cominciare dal punto interrogativo su quella che era stata la prima regola adottata dalle forze armate americane per rimettersi in piedi dopo la legnata, e cioè accettare dal potere politico solo missioni eseguibili e solo a patto di aver mano libera per poter raggiungere l’obiettivo. Come a Grenada, come in Desert Storm. Una regola codificata insieme da Caspar Weinberger e da Colin Powell, allora, sotto Reagan, presidente del comitato dei capi di stato maggiore. Ma la minaccia era vera allora, come lo è oggi quella del terrorismo di tutte le risme che colpisce in Iraq. Chi si illude che l’America piegata ieri, e in apprensione oggi, molli la presa e non ne venga a ragione a modo suo magari domani, commette forse un grave errore. Celebrato il quale, con tutte le sue amare conseguenze per i vietnamiti e i cambogiani ieri, per gli iracheni e per tutte le vittime del terrorismo oggi e domani, ci toccherà poi di rileggere l’equivalente della dolente confessione di un Jean Lacouture, intellettuale-bandiera il cui entusiastico "Ho Chi Minh" nel 1968 era diventato un’icona del progressismo antiamericano. "Ignorai i difetti del Vietnam del Nord, ritenevo la sua causa giusta e dunque non meritava se ne mostrassero gli errori. Credevo totalmente inopportuno esporre lo stalinismo del regime mentre Nixon bombardava Hanoi", confessò anni dopo a George Sevy, nel suo "The American Experience". Appuntamento tra qualche anno, con gli attuali partigiani del "Con Saddam si stava meglio e l’America si levi dai piedi".

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