La situazione in Iraq fa scatenare gli editorialisti americani, i quali prendono carta e penna e spiegano come, secondo loro, si potrebbe imprimere una svolta positiva al conflitto. Quando sui giornali americani si parla di svolta non viene mai intesa nel senso dalemiano, cioè non c’è nessuno che invochi l’Onu e punto, come se l’Onu fosse il padreterno onnipotente che tacere i guerriglieri fa. Intanto perché l’Onu in Iraq c’è già (ieri l’inviato di Kofi Annan, Lakhdar Brahimi, ha tenuto una conferenza stampa a Baghdad sulla transizione politica e sulle elezioni irachene, chissà se stavolta i giornali se ne accorgeranno), secondo, perché la nuova risoluzione dell’Onu è stata una precisa richiesta da Washington e, terzo, perché il semplice maggior coinvolgimento dell’Onu di per sé non risolverebbe nulla. Probabilmente peggiorerebbe il quadro, secondo il Wall Street Journal.
Nel suo editoriale di ieri il Wsj ricorda come l’Onu, in quanto tale, non sia garanzia di pacificazione: "L’ultima cosa di cui l’esercito americano oggi ha bisogno è quella di avere i propri piani sul controllo di Fallujah respinti da qualche personaggio politico dell’Onu che risponde ai francesi e ai russi". Il Wall Street Journal ricorda i casi dei caschi blu pakistani rimasti immobili mentre i rangers americani venivano uccisi a Mogadiscio e il precedente dei caschi blu olandesi che non mossero un dito mentre i serbi massacravano migliaia di bosniaci a Srebrenica. Anche l’attuale missione di Brahimi a Baghdad non sembra incontrare i favori del Wsj che riporta l’imbarazzo dei curdi e dei turcomanni iracheni quando l’inviato di Annan si è presentato a una riunione del Consiglio governativo come "fratello arabo". Senza dimenticare, ricorda il Wsj, che le Nazioni Unite sono le stesse del gigantesco furto, in combutta con Saddam, di denaro iracheno dal programma petrolio-in-cambio-di-cibo. Il giornale finanziario di New York critica Bush perché sembra che l’Amministrazione stia convincendosi che l’irachizzazione del conflitto, cioè il veloce passaggio dei poteri e della gestione della sicurezza agli iracheni, stia fallendo. Non è così, scrive il Wsj. Moltissimi iracheni lavorano alla costruzione del nuovo Iraq, e infatti vengono uccisi per questo. Semmai i rischi nascono dal fatto che non si sa ancora chi prenderà il potere dopo il 30 giugno (Ma ieri Brahimi ha cominciato a chiarire le cose).
Il Wall Street Journal pubblica anche un’opinione di David Ignatius, comparsa martedì sul Washington Post, che chiede un "New Deal" per l’Iraq. Non basta l’invio di più truppe, come fin dal primo giorno di guerra chiedono i neoconservatori Bill Kristol e Robert Kagan dalle colonne del Weekly Standard. Secondo Ignatius gli americani devono, subito, mostrare il loro lato buono. Uno degli strumenti, scrive Ignatius, è quello di fare in modo, non importa quanto costerà, di fornire elettricità 24 ore su 24 a tutto il paese: "La mancanza di elettricità è il simbolo del fallimento americano in Iraq". Secondo Ignatius è necessario spendere subito i 18 miliardi di dollari stanziati dal Congresso che dovrebbero creare 50 mila posti di lavoro entro il 30 giugno. In generale il New Deal dell’editorialista del Post prevede la messa in circolo di denaro: "L’estate scorsa la coalizione ripulì le strade di Baghdad pagando alcuni dollari al giorno migliaia di ragazzini. Va fatto di nuovo. Mettiamo più denaro nelle mani dei politici locali e dei leader tribali e religiosi. Un po’ andrà perso, ma la causa sarà quella giusta".
Sostiene George Shultz
Il Washington Post di ieri ha ospitato un’opinione di George Shultz, segretario di Stato tra il 1982 e il 1989: "Se guardiamo il quadro ci sono nuove possibilità". Secondo il ministro di Ronald Reagan, "la guerra in Iraq ha eliminato uno Stato canaglia che ha ripetutamente agito per intralciare i progressi verso la pace in Medio Oriente. L’operazione Iraqi Freedom è la chiave di volta di uno sforzo indispensabile per la sicurezza internazionale: la trasformazione del Medio Oriente". Secondo Shultz, "i grandi problemi odierni, con tutto il trauma che creano, non fanno altro che evidenziare l’importanza di questo grande potenziale e sottolineano la necessità di riuscire nell’impresa", anche perché "la soluzione del conflitto israelo-palestinese non è la condizione per un cambiamento positivo nel Medio Oriente" ma, al contrario, "una soluzione può arrivare come conseguenza di tale cambiamento". Non è mai successo, spiega Schultz, che un documento per la pace come la road map avesse questo ampio sostegno internazionale. Al tentativo, scrive Schultz, lavorano israeliani, palestinesi, egiziani, sauditi, giordani e il quartetto americano, formato da europei, russi e Onu.
Il ragionamento più completo sulla situazione irachena è di Fareed Zakaria, direttore dell’edizione internazionale di Newsweek e autore di un saggio con il quale ha spiegato che non può esserci democrazia in una società illiberale. Zakaria, in un lungo articolo su Newsweek, analizza le ultime settimane. Le operazioni militari a Fallujah, scrive, hanno creato un forte sentimento antiamericano e, ora, l’esercito si trova in un circolo vizioso: deve rispondere agli attacchi ma più risponde più alimenta l’odio nei suoi confronti. "C’è un crescente mercato dell’antiamericanismo in Iraq e i politici cominciano a contenderselo", oggi è Al Sadr, domani potrebbe essere qualcun altro. L’America, spiega Zakaria, "ha fatto migliaia di cose buone in Iraq" ma ha anche commesso "errori cruciali". Oggi Washington si trova di fronte allo stesso dilemma che affrontarono i colonizzatori britannici dell’Iraq negli anni Venti: quando i tentativi di costruire una nazione stavano per fallire, gli inglesi erano alla ricerca di una via d’uscita che non gli facesse perdere la faccia. La soluzione escogitata fu quella di affidarsi e di trasferire il potere alle élite irachene considerate più vicine agli interessi britannici. L’America, scrive Zakaria, è quasi sul punto di dover fare questa scelta, perché in Iraq non è riuscita a controllare il potere né a legittimare la sua presenza. La guerra leggera e di tipo nuovo orchestrata da Donald Rumsfeld è stata un errore. Uno studio della Rand Corp. valutava in mezzo milione il numero dei soldati necessari alla missione in Iraq, invece sono soltanto 135 mila. Secondo Kenneth Pollack, "il più importante impedimento" al successo del dopoguerra è che gli iracheni "non si sentono sicuri a casa propria". La risposta di Bush, scrive Zakaria, non ha funzionato: aver affidato a una polizia irachena mal addestrata la gestione della sicurezza è stato un errore.
Anche sul fronte dell’impegno civile le critiche di Zakaria sono durissime. L’Autorità di Paul Bremer impiega 1.300 persone, mentre Douglas McArthur in Giappone ebbe un personale di cinque o sei volte più numeroso. Secondo Zakaria, Bush ha sbagliato ad affidarsi agli esuli iracheni, avrebbe dovuto dare più spazio al leader sciita Al Sistani (ma Sistani era anch’egli esule e cittadino iraniano e, peraltro, è l’interlocutore principale di Paul Bremer).
Zakaria eviterebbe il passaggio di poteri agli iracheni previsto per il 30 giugno e vorrebbe vedere truppe Usa in giro per le città a far da ronda per ristabilire l’ordine pubblico. Non crede all’esportazione della democrazia e propone, addirittura, di coinvolgere "i fondamentalisti islamici, i capi tribali, i dirigenti di basso grado del partito Baath" se si vuole ottenere un Iraq stabile. Anche lo stesso Moqtada Al Sadr, nella visione di Zakaria, "dovrebbe essere cooptato dando alla sua fazione un posto a tavola".
E’ molto difficile che George Bush possa seguire questo consiglio.