Camillo di Christian RoccaDivide et non impera

Milano. La crisi irachena di questi giorni è riuscita a sfatare uno dei grandi miti della guerra al terrorismo, quello della lobby dei neoconservatori che avrebbe dirottato il corso tradizionale della politica estera americana per soddisfare gli appetiti affaristici, le pulsioni militariste e le fedeltà sioniste di una cricca di disinvolti professorini ebraici. Secondo questa tesi gli attacchi terroristici contro New York e Washington sono stati solo un pretesto, quasi una manna dal cielo, per perseguire un piano geopolitico per la conquista del mondo da attuare con la guerra preventiva. E’ stato scritto più volte che sarebbe bastato far fuori cinque o sei persone a Washington, la cabala dei neocon appunto, per evitare la guerra in Iraq e l’assalto americano ai paesi dell’asse del male. Secondo questa ricostruzione macchiettistica, smentita da libri, saggi e precedenti storici, Bush avrebbe semplicemente interpretato il ruolo dell’utile idiota degli ideologi della guerra. Su questo giornale è stato spiegato in lungo e in largo la vacuità di tali tesi e la non esistenza di una falange neocon coesa e coordinata. Ma solo ora che la situazione sul campo si è complicata, solo adesso che tra i favorevoli alla missione in Iraq emergono chiassose diversità d’opinione, l’intera vicenda può essere osservata sotto una luce più appropriata: la lobby neocon non esiste più, proprio perché non è mai esistita.

Il settimanale The Weekly Standard scrive, da mesi, articoli affidati a Bill Kristol e Robert Kagan per suggerire l’invio di più truppe e chiedere le dimissioni di Donald Rumsfeld, il segretario alla Difesa che si ostina a perseguire l’idea della guerra leggera e veloce. Vice di Rumsfeld, però, è uno dei più lucidi intellettuali neocon, Paul Wolfowitz. Max Boot, unico neocon del Council on Foreign Relations nonché editorialista del Los Angeles Times, ha idee ancora più poderose: altro che guerra lampo e high-tech, l’America abbia il coraggio di comportarsi da impero, da impero liberale e moderno e istituire un ministero per gli affari coloniali. E in Iraq, dice, si resti decenni. Stanley Kurtz, della Hoover Institution, ha suggerito di seguire l’esempio inglese in India che, per quanto rielaborato in versione light, è pur sempre durato duecento anni.
Barbara Lerner, sulla National Review, prende invece di petto Kagan e Kristol e, da posizioni ultra neocon, spiega che l’impasse irachena sia da attribuire a Colin Powell, non a Rumsfeld. Lerner ricorda come l’idea rumsfeldiana (e dei neocon) fosse completamente diversa: affidare l’Iraq liberato ai freedom fighters filoamericani, ai curdi Jalal Talabani e Massoud Barzani e allo sciita laico Ahmed Chalabi. Il Pentagono avrebbe dovuto addestrare diecimila iracheni da affiancare a Chalabi, ma non lo ha fatto. Dopo sole tre settimane il proconsole americano, Jay Garner, è stato sostituito da Paul Bremer, il quale ha iniziato una occupazione di tipo classico, di quelle che piacciono al Dipartimento di Stato. Michael Rubin, dell’American Enterprise, sostiene che la colpa dei problemi attuali sia proprio di Bremer e del ruolo di mediatore che si è ritagliato. Avrebbe dovuto dare potere ai liberali piuttosto che blandire gli islamisti.

In ordine sparso
Dunque ci sono neocon che difendono le scelte di Rumsfeld e altri che le criticano. Lo stesso vale per Paul Bremer, accusato di aver ribaltato il piano iniziale che avrebbe favorito Chalabi, ma allo stesso tempo lodato per aver seguito l’indicazione di Chalabi e dei neocon di debaathificare il paese dai ceffi di Saddam. Chalabi, cocco di tutti i neocon, è la chiave di volta di tutto il chiacchiericcio intorno all’influenza dei neoconservatori in questa guerra. C’è chi dice che Dipartimento di Stato e Cia impieghino più energie per combattere Chalabi che per scovare i saddamiti. Chalabi, però, sta costruendo la base del consenso elettorale e, tra i membri del Consiglio governativo, è quello in migliori rapporti con l’uomo più importante dell’Iraq futuro, l’ayatollah al Sistani. La rivista Salon svela che avrebbe fatto fessi i neocon, perché aveva promesso loro la riapertura dei rapporti commerciali con Israele, e non l’ha fatto. Salon dimentica di dire che Chalabi non ha mai avuto il potere di decidere alcunché. Così come Newsweek, che lo accusa di aver passato importantissimi segreti militari agli ayatollah iraniani, ma è sempre lo stesso Newsweek che fino al numero precedente considerava Chalabi un fabbricatore di prove false. Michael Ledeen, uno dei più leali sostenitori di Chalabi, spiega sulla National Review che l’Iraq non potrà essere pacificato finché Powell tenterà approcci con i destabilizzatori siriani e iraniani, gli stessi iraniani con cui Chalabi intrattiene già rapporti.
E’ tutto molto più complicato, insomma. I cattivoni del Pnac, per esempio, il Project for the new american century che secondo i detrattori dovrebbe essere l’epicentro della cospirazione, si prodigano fin dall’anno scorso, con appelli bipartisan firmati assieme ai clintoniani, per una internazionalizzazione del conflitto. Idea che fa rabbrividire molti altri neoconservatori. I quali, appunto, sono divisi e, infatti, non comandano.

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