Camillo di Christian RoccaFallujah, Brahimi e Chalabi

Il primo dei sei discorsi con cui, da qui al 30 giugno, George W. Bush spiegherà agli elettori la sua visione del nuovo Iraq, s’è tenuto ieri notte all’Army War College di Carlisle, in Pennsylvania, oltre che in diretta televisiva su Cnn, Fox, Msnbc e C-Span. Bush ha dovuto confutare l’idea che l’Amministrazione non sappia che cosa sta accadendo in Iraq, accusa che ormai gli imputano quasi tutti, dai Democratici ai neoconservatori come Robert Kagan.

Contemporaneamente, americani e inglesi hanno presentato la bozza di una nuova risoluzione delle Nazioni Unite che dovrà dare legittimità al nuovo governo iracheno, alla cui formazione sta lavorando l’inviato di Kofi Annan a Baghdad, Lakhdar Brahimi. Ma i dubbi sulla strategia americana sono sul campo, in Iraq, con la clamorosa vicenda di Ahmed Chalabi, l’esule iracheno prima favorito e ora accusato di essere una spia iraniana, e con il nodo mai risolto della guerriglia scatenata dalle brigate Mahdi di Moqtada al Sadr e dell’insorgenza armata nel triangolo sunnita.
La grande novità della dottrina Bush, elaborata dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, era racchiusa in poche parole: l’America non avrebbe fatto più differenze tra gruppi terroristici e Stati che li finanziano, che li ospitano, che li proteggono. Eppure l’eccezione non è soltanto l’Arabia Saudita, ma anche la cittadina irachena di Fallujah, l’enclave nel triangolo sunnita rimasta fedele a Saddam. A Fallujah, come in moltissime altre città irachene, le truppe angloamericane non sono mai penetrate, né durante le operazioni militari che l’anno scorso hanno portato alla caduta del regime, né nelle ultime cinque settimane quando i seguaci del dittatore hanno ripreso la guerriglia armata. C’è chi dice che l’errore strategico di non essere entrati a Fallujah sia imputabile all’improvvisa decisione turca, l’anno scorso, di negare l’accesso alle truppe americane dal nord. A quell’errore, ormai riconosciuto da tutti, non è stato ancora trovato rimedio. E ogni giorno che passa una soluzione armata diventa sempre più difficile. "L’eccezione Fallujah" alla dottrina Bush ha creato parecchi guai, non solo militari ma anche politici. I partiti sciiti e curdi sono grandi alleati dell’Amministrazione Bush che li ha liberati da Saddam e dall’oppressione subita dalla minoranza sunnita che guidava l’Iraq. Anche le autorità religiose sciite, come al Sistani, partecipano al processo democratico. Ora però i più fedeli alleati della guerra di liberazione cominciano a sospettare delle reali intenzioni americane, dopo che l’Autorità provvisoria di Paul Bremer ha deciso di consegnare Fallujah a un ex ufficiale dell’esercito di Saddam iscritto al Baath. Sciiti e curdi temono che se nel paese passasse "il modello Fallujah", i sunniti potrebbero tornare al potere. Come ai tempi di Saddam.

La debolezza dell’azione militare
L’esempio Fallujah, tra l’altro, si sta diffondendo non solo tra i sunniti. La guerriglia antiamericana tenta ovunque di ripetere quel tipo di successo, cioè combatte e poi si rifugia dentro le città, perché sa che gli americani non vogliono affrontare una vera e propria battaglia. Anzi succede che, come a Fallujah, si affidano a un leader sunnita, magari legato al vecchio sistema di potere, per imporre una tregua. Trovato l’accordo, gli americani mollano la presa e la guerriglia ricomincia più forte di prima. La stessa cosa avviene nel sud sciita, dove Moqtada al Sadr fa liberamente le sue conferenze stampa dentro le moschee delle città sante assediate dalla coalizione. Domenica gli americani lo hanno circondato a Kufa ma, come in precedenza, attaccano senza affondare, perché temono che uccidere al Sadr possa trasformarlo in un martire.
William Kristol e Lewis Lehrman hanno spiegato sul Washington Post di domenica che gli obiettivi del passaggio dei poteri e delle elezioni non potranno essere raggiunti se non sarà garantita agli iracheni una adeguata sicurezza: "Per ottenerla occorre una decisa operazione militare contro le insorgenze armate che cercano di impedire la nascita di un governo iracheno". Bisogna, dunque, "distruggere" le milizie "che si oppongono alla transizione pacifica. Fallujah deve essere conquistata e ai terroristi deve essere impedito di trovare rifugio nelle città". Solo in questo modo, hanno scritto Kristol e Lehrman, "un Iraq sovrano, con l’assistenza militare americana e di altri, sarà in grado di affrontare la sfida della ricostruzione politicaDipartimento di Stato e Pentagono oggi preferiscono una soluzione soft. Secondo Michael Ledeen, analista dell’American Enterprise Institute, l’Amministrazione è tentata dal perpetuare ovunque il "modello Fallujah". A pochi mesi dalle elezioni americane, la Casa Bianca non vuole aprire altri fronti pericolosi sul piano della guerra mediatica che già sta perdendo. Eppure, fin qui, le tregue si sono dimostrate effimere, perché i guerriglieri non vengono neutralizzati, anzi acquistano coraggio, la popolazione perde fiducia e l’iniziativa militare passa nelle mani dei terroristi. Il pericolo è evidente: rimettendo al governo delle città la leadership sunnita, la coalizione rischia di perdere il consenso sciita, specie quello decisivo fornito dall’ayatollah Sistani. "Se perdiamo Sistani, perdiamo l’Iraq", ha scritto sul Weekly Standard Reuel Marc Gerecht, il quale ha consigliato ai funzionari dell’Amministrazione di chiedersi sempre quale potrebbe essere la reazione di Sistani prima di prendere qualsiasi decisione.
William Safire, sul New York Times di ieri, ha raccontato che la vera guerra tribale non è tra sciiti, sunniti e curdi, ma tra Pentagono, Cia e Dipartimento di Stato. Al Pentagono sono troppo indeboliti dallo scandalo delle torture per poter imporre la mano forte contro la guerriglia, la partita quindi si gioca a Foggy Bottom, dove gli arabisti del Dipartimento di Stato sono influenzati dai leader sunniti dell’Arabia Saudita, dell’Egitto e della Giordania che a Baghdad vorrebbero un baathista sunnita come garanzia per la stabilità del paese.
Le mosse del sunnita Lakhdar Brahimi rientrano in questo schema. Secondo Safire, Robert Blackwill, che è l’inviato di George Bush in Iraq, ha imposto a Paul Bremer di accontentare tutte le richieste di Brahimi. Si deve a una precisa richiesta del diplomatico algerino la decisione di chiedere l’aiuto dei leader sunniti per pacificare Fallujah, così come la scelta di rigettare la politica di de-baathificazione del paese presa da Bremer pochi giorni dopo il suo insediamento a Baghdad e affidata ad Ahmed Chalabi. L’ex favorito di Washington, peraltro, è l’uomo politico iracheno che più di ogni altro l’estate scorsa si era battuto per convincere gli americani a entrare a Fallujah per fare piazza pulita dei nostalgici del regime. Anche l’improvviso alt posto da Bremer all’inchiesta irachena sullo scandalo Oil for food dell’Onu, gestita ovviamente da Chalabi, risponde alla logica di accontentare Brahimi, il quale si sta barcamenando tra le posizioni dei vari partiti politici per trovare gli otto iracheni che occuperanno i posti chiave del nuovo Iraq post 30 giugno. Gli americani vorrebbero Adnan Pachachi alla presidenza, ma ci sono da riempire anche le caselle di primo ministro, dei due vicepresidenti e dei ministri della Difesa, degli Esteri, delle Finanze e del Petrolio. Secondo Chalabi gli americani dovrebbero sconfiggere militarmente i nostalgici, i terroristi e gli avversari della democrazia e affidare subito agli iracheni la responsabilità del proprio paese: "Il piano Brahimi, Bremer, Blackwill fallirà", ha detto. Ma la sera prima era a cena con Brahimi e gli altri leader iracheni.

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