Milano. Un paio di anni fa il settimanale New Yorker scrisse che uno dei danni collaterali causati dall’11 settembre è stato il ritorno di una parola dimenticata, "neoconservative". Quella parola apparve per la prima volta nel 1973, in un articolo di Michael Harrington sulla rivista di sinistra Dissent. Si trattava di una critica rivolta a un gruppo di persone e di intellettuali della sinistra newyorchese che da anni criticava la deriva illiberale e "antiamericana" della sinistra americana. Fino ad allora nessuno li aveva mai definiti di destra o conservatori o repubblicani. Erano liberal di sinistra. Oggi, con le gravi difficoltà che incontra la campagna irachena, si dice e si scrive che uno degli effetti benefici della guerra sia proprio la fine dell’influenza politica dei neoconservatori sulla Casa Bianca.
La tesi della fine dei neocon è largamente diffusa, già da diversi mesi, tra chi li ha sempre descritti come una misteriosa cabala di disinvolti intellettuali ebrei, seguaci di Leo Strauss, bramosi di conquistare il mondo per soddisfare pantagruelici appetiti affaristici, pulsioni militariste e fedeltà sioniste. La lobby avrebbe dirottato la politica estera americana dal suo tradizionale corso e scippato all’ingenuotto presidente George W. Bush la guida del paese. Poco importa che l’interventismo democratico sia ben incardinato nella tradizione politica americana, da Woodrow Wilson a Bill Clinton, e così anche l’unilateralismo, ma se si segue lo schema della lobby va da sé che si può decretare la fine dei neocon. Un anno di occupazione ha dimostrato la fallacità della tesi secondo cui gli iracheni si sarebbero schierati come un sol uomo al fianco dei liberatori angloamericani. Non è successo nemmeno il contrario, nonostante le cronache siano più inclini a raccontare il bicchiere mezzo vuoto piuttosto che quello mezzo pieno. I neocon si erano affidati ad Ahmed Chalabi, il leader liberale dell’Iraqi National Congress che Bill Clinton decise di finanziare, ma Chalabi non è riuscito, anche per l’opposizione di gran parte dell’Amministrazione, a prendere in mano il nuovo Iraq. Ai neocon si imputano anche altri errori del dopoguerra, come la debaathificazione. Una scelta che ancora oggi loro considerano decisiva per conquistare la fiducia della leadership sciita. William Kristol e Robert Kagan criticano Donald Rumsfeld per l’esiguo numero di truppe impiegate, contestano il neocon Paul Wolfowitz per aver escluso dai contratti della ricostruzione le aziende dei paesi non belligeranti e, infine, l’Amministrazione per non aver aperto al resto del mondo nel momento della caduta di Saddam. Un mese fa Kristol disse al Foglio di non avere alcun rapporto con la Casa Bianca, se non qualche occasionale incontro con Condi Rice. Questo vuol dire che la loro politica sia stata messa in soffitta e che ora a Washington i neocon siano evitati come appestati?
Rampini: esagerata la loro importanza
Non è così. Intanto perché non esiste un partito neocon. Non esiste un loro manifesto né un’associazione né un giornale. Non c’è un credo, una religione, un inno, una bandiera neoconservatrice. James Q. Wilson, uno di loro, scrisse che "il neoconservatorismo è uno stato d’animo, non un’ideologia". Federico Rampini, in un fresco libro dai toni fortemente antipatizzanti nei loro confronti ("Tutti gli uomini del presidente" – Carocci), si è fatto scappare che "si tende a focalizzare tutta l’attenzione sui neocon fino a esagerarne l’importanza". I neocon sono diventati potenti non in quanto tali, piuttosto perché il presidente li ha ascoltati quando, con le Torri ancora fumanti, cercava una strategia complessiva per riprendere in mano la situazione. Loro erano gli unici ad avere un piano concreto, studiato e promosso per anni: diffondere in tutto il medio oriente i valori democratici americani.
Non esiste neanche una definizione univoca di neocon. Irving Kristol, considerato il padrino del gruppo, li definì "liberal assaliti dalla realtà". Più alla larga: se prendete un intellettuale di sinistra, magari con un passato socialista, diventato poi anticomunista, alla fine troverete un neocon di prima generazione. Nell’Amministrazione Bush il neocon in capo è Paul Wolfowitz, vice di Rumsfeld al Pentagono, dipartimento in cui ha lavoratto sotto diversi presidenti compreso Jimmy Carter. Il suo grande amico fuori dalle istituzioni è Richard Perle, ex capo del centro studi bipartisan del Pentagono. Molto influente è Lewis Scooter Libby, capo di gabinetto del vicepresidente Dick Cheney. Nell’amministrazione ci sono anche il membro del Consiglio di sicurezza nazionale, Elliot Abrams, e il sottosegretario alla Difesa Doug Feith.
Un neocon falchissimo come Gary Schmitt dice al Foglio che "il punto non è se i neocon oggi siano finiti, ma se la politica neocon sia stata messa da parte o no". Schmitt crede che sia sotto il tiro di gran parte dei funzionari di carriera del Dipartimento di Stato, del Pentagono e dell’esercito: "Le burocrazie ministeriali non hanno mai sostenuto queste politiche e oggi si servono delle difficoltà sul campo per sostenere con forza un programma anti-neocon. Bush però non sembra abbia cambiato idea sul suo programma, ma questa tensione tra il presidente e il resto del suo braccio esecutivo non potrà continuare per sempre. Bush delega molte responsabilità, ma corre il rischio di non far attuare le sue stesse direttive". Schmitt non crede che ci sia un ritorno della realpolitik, "se non la voglia di risolvere alcuni problemi contingenti che finiscono per avere implicazioni e giustificazioni realiste. L’Amministrazione vuole un po’ di calma prima di cedere il potere agli iracheni, tenta di evitare di aprire altre crisi in vista delle elezioni americane. Sbagliano, ma non mi pare un ritorno alla realpolitik piuttosto un semplice desiderio di tirare avanti, fino alla rielezione".
Steven Cook, analista del "realista" e bipartitico Council on Foreign Relations, ha studiato con Wolfowitz e lavorato con Feith, ma oggi è delusissimo dai neocon che, secondo lui, "hanno servito male il presidente e danneggiato la situazione in Iraq". Ma non crede che la loro stagione possa finire così velocemente: "Se mai ci fosse un secondo mandato per Bush, e ci fossero ancora problemi in Iraq, riacquisterebbero un ruolo i realisti di Bush padre, ma credo che i cambiamenti potrebbero riguardare Colin Powell e i suoi, non i neocon".
Il parere di Kemble
Penn Kemble è considerato "un neocon dal volto umano", è socialdemocratico, attivista della democrazia ed ex membro dell’Amministrazione Clinton. Al Foglio dice che "i cosiddetti neocon hanno convinto il presidente a fare della democrazia in medio oriente il punto centrale del suo programma. Con le armi di sterminio che non si sono trovate, questa è l’unica motivazione dell’avventura in Iraq: come potrà Bush abbandonare i neocon senza perdere la premessa-chiave della sua politica estera?".
I segnali non sono univoci: le sanzioni nei confronti della Siria, la decisione di negare il diritto al ritorno dei palestinesi in Israele e l’iniziativa Greater Middle East sono pilastri neocon. Il tentativo di dialogo con gli iraniani e l’entusiasmo per il pentimento di Gheddafi sono considerati commendevoli "eccezioni alla dottrina Bush".
Gary Schmitt, infine, spiega che "non c’è stata un’unica posizione dei neocon sull’Iraq post Saddam. Un buon numero di loro credeva che questa potesse essere davvero una guerra di liberazione e che non fosse necessaria un’occupazione estesa e intensiva. Altri, come Kristol, Kagan e io stesso, pensavamo che la ricostruzione dell’Iraq sarebbe stata una sfida lunga e difficile". Errori di Rumsfeld a parte nessuno aveva previsto che tredici mesi dopo la caduta del regime si dovesse combattere ancora nelle città. Come ha scritto ieri l’Economist, "è molto più facile combattere una guerra da un centro studi sulle rive del Potomac che da un carcere di Baghdad". I neocon, oggi, sono dei liberal assaliti dalla realtà della guerra in Iraq.