Camillo di Christian RoccaIl cambio di rotta risale a otto mesi fa. Bush si affida a Onu e iracheni (e imbriglia Kerry)

La svolta di George W. Bush, quella tanto invocata anche dalla sinistra italiana, non è una novità contenuta nel discorso pronunciato lunedì sera all’Army War College della Pennsylvania. Le radici dei cinque punti del progetto Iraq (passaggio dei poteri a un governo iracheno sovrano, sicurezza, ricostruzione delle infrastrutture, coinvolgimento della comunità internazionale, ed elezioni libere) vanno retrodatate al settembre del 2003 quando, dopo un’estate di stragi terroriste, gli Stati Uniti tornarono alle Nazioni Unite per ottenere la legittimazione del comando militare, l’avvio del processo democratico e il coinvolgimento internazionale. A ottobre arrivò la risoluzione 1511, quella che Fassino, D’Alema e Rutelli, non ancora in campagna elettorale, salutarono come una svolta. A novembre, come prescritto dalla risoluzione Onu, fu siglato un accordo tra americani e iracheni che fissò date e procedure del trasferimento dei poteri. A dicembre, su domanda del leader sciita al Sistani, il procedimento fu rivisto e fu affidata all’Onu la richiesta sciita di anticipare le elezioni al giorno del trasferimento della sovranità, cioè al 30 di giugno.
Lakhdar Brahimi, inviato di Kofi Annan, volò a Baghdad e spiegò che non era possibile. Lì nacque l’idea di costituire un governo provvisorio per reggere il paese dal 30 giugno fino alle prime elezioni libere, fissate non oltre il 31 gennaio 2005. L’assemblea eletta, a quel punto, nominerà un governo e approverà la Costituzione definitiva, che sarà sottoposta a referendum entro ottobre. Una volta adottata la carta fondamentale si tornerà alle urne, prima della fine del 2005, per eleggere direttamente il primo governo iracheno. Tre elezioni libere in un anno, nel paese fino all’anno scorso retto da una delle più brutali dittature della storia. Bush lunedì sera ha spiegato in bello stile questo processo, e ieri ha ottenuto anche un’apertura di credito da parte del presidente francese Jacques Chirac sul testo della nuova risoluzione Onu.
La svolta, dunque, risale a otto mesi fa. In vista delle elezioni americane Karl Rove convinse Bush a concentrarsi sull’Iraq piuttosto che spingere sulla più ampia campagna di democratizzazione del medio oriente. Bill Kristol e Robert Kagan, a gennaio, commentarono sul Weekly Standard: "Se Bush non fa Bush, perderà le elezioni". E’ così?
Nessuno oggi può essere certo sull’esito delle elezioni americane. Certo è che sono cresciute le critiche alla gestione della guerra e, nei sondaggi, Bush è stabile sotto il 50 per cento. Con la ribellione di Moqtada al Sadr nel sud iracheno e dei seguaci di Saddam a Falluajah, ma anche con l’inversione di marcia sulla de-baathificazione e su Ahmed Chalabi, Bush ha dato la sensazione di procedere a tentoni, senza sapere bene che cosa voglia fare. Secondo il Los Angeles Times, il discorso di Bush di lunedì sera mirava proprio a questo, a rispondere a quello che i sondaggi mostrano essere la principale minaccia alla sua rielezione: la sensazione che non abbia un progetto chiaro.
Bush non ha offerto nessuna nuova idea, fatta eccezione per la promessa di abbattere il carcere di Abu Ghraib. Si è mostrato però flessibile, e non ideologico, quando ha spiegato che a Fallujah i militari americani non entrano perché c’è il rischio di fare molte vittime civili, cosa da evitare per conquistare i cuori e le menti degli iracheni. Idea che non convince lo storico militare Victor Davis Hanson, secondo il quale "prima va distrutto il nemico, poi si pensa al cuore e alle menti". Secondo Andrew Sullivan, Bush "è stato troppo sulla difensiva". Secondo il settimanale liberal New Republic la tranquillità mostrata dal presidente non basta: "L’America non è nemmeno lontanamente vicina a quel grado di fiducia che aveva in Bush subito dopo l’11 settembre, quando un discorso calmo di un leader fidato è riuscito a rassicurare l’opinione pubblica". Ma c’è anche chi dice che le parole di Bush abbiano invece colpito il vero bersaglio: John Kerry. Nel delineare "i passi specifici che stiamo facendo per raggiungere i nostri obiettivi", Bush ha tolto spazio politico a Kerry. Secondo un’analisi del Los Angeles Times è difficile scovare qualcosa nel suo discorso che possa permettere ai suoi critici di suggerire un modo migliore per affrontare la situazione. Bush, infatti, oltre a citare democrazia ed elezioni, ha parlato anche con il linguaggio caro ai liberal: Onu, coinvolgimento internazionale, uso moderato della forza. Kenneth Pollack, ex advisor di Bill Clinton, a un dibattito su "che cosa succederà in Iraq dopo il trasferimento dei poteri" che si è tenuto lunedì alla Brookings Institution, ha esplicitato la difficoltà propositiva degli anti Bush: "Nessuno di noi sa davvero quale sia la risposta giusta". David Brooks ha scritto sul New York Times che Bush pensa invece di averla, tanto da scommettere la posta della sua rielezione sulla capacità degli iracheni di autogovernarsi meglio di quanto, fin qui, siano stati governati dagli americani.

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