C’è una gran voglia di realpolitik in America dopo la svolta neoidealista impressa prima dall’interventismo democratico dell’Amministrazione Clinton e poi, dopo l’11 settembre 2001, dalla politica del "cambio di regime" di George Bush. Il realismo è tipico della destra americana, ma dopo il Vietnam è diventata la linea guida di politica estera della sinistra liberal. Bill Clinton e Al Gore sono stati l’eccezione e se ne sono vantati al punto da aver definito "neowilsoniana" la loro politica estera, dal nome del presidente democratico Woodrow Wilson le cui idee oggi sembrano ispirare più Bush che John Kerry. Clinton sosteneva che con la fine della Guerra fredda il compito dell’America fosse quello di diffondere la democrazia, e certo avrebbe fatto molto di più se ogni volta che tentava di colpire un dittatore non fosse stato accusato di voler distogliere l’attenzione dallo scandalo Lewinsky. Bush è stato eletto su una piattaforma opposta, di disimpegno dal mondo. L’11 settembre ha ribaltato le cose, ma dopo un anno di problemi in Iraq il realismo è tornato di moda, spiega Lawrence Kaplan in un saggio sul settimanale liberal New Republic.
A Washington è nata la Coalition for a Realistic Foreign Policy, un gruppo di pressione bipartisan che promuove una visione alternativa non solo sull’Iraq ma sull’impegno degli Usa nel mondo. I realisti, liberal come Charles Kupchan e conservatori come il Cato Institute, sostengono che gli Stati Uniti non devono imporre libertà e democrazia nel mondo contro il volere di regimi sovrani. Credono che il vero interesse nazionale sia da un lato quello di mantenere il dominio militare e dall’altro di stipulare accordi e alleanze. Solo così, dicono, si difende la sicurezza americana. Bush non crede che questa sia la soluzione dopo l’11 settembre. In un discorso all’Accademia dell’aviazione del 2 giugno, si è esplicitamente rivolto ai realisti così: "Coloro che si autodefiniscono realisti contestano che la diffusione della democrazia in medio oriente debba essere in alcun modo una nostra preoccupazione. Ma in questo caso i realisti hanno perso contatto con una realtà fondamentale: l’America è sempre stata meno sicura quando la libertà arretrava; l’America è sempre più sicura quando la libertà è in marcia". Il paradosso è che l’Amministrazione Bush, pur restando idealista a parole, nell’ottobre del 2003 ha impresso una svolta realista alla gestione del dopoguerra iracheno cercando il coinvolgimento dell’Onu e affidando le chiavi di Baghdad all’Iraq Stabilization Group, il nuovo organismo creato da Condoleezza Rice e guidato da Robert Blackwill, ex collaboratore del campione della realpolitik americana Henry Kissinger. A Baghdad, nel frattempo, era stato inviato Paul Bremer, già associato di Kissinger. Se Bush oscilla tra l’universalismo democratico e un’attuazione più realista sul campo, Kerry è un realista convinto, "un realista che guarda avanti" secondo la definizione di Sandy Berger, certo non è un pacifista né un militante dei diritti umani. Ha votato a favore della guerra in Iraq solo ed esclusivamente per la questione delle armi di distruzione di massa, non per liberare la società irachena da un feroce dittatore. Nel 1990 votò contro il primo intervento nel Golfo. Kerry non parla di democrazia in Iraq, punta sulla "stabilità" e i giornali cominciano a definire "kissingeriana" la sua politica. In realtà Kerry sembra l’erede di Bush padre, nonostante la sua squadra di politica estera sia formata dagli ex universalisti di Clinton. Bush figlio, invece, è diventato l’alfiere dell’idealismo democratico nonostante i suoi consiglieri fossero i realisti del padre. La sfida di Kerry a Bush è soprattutto questa. Da una parte c’è un candidato di centrosinistra che crede che l’America si difenda meglio promuovendo stabilità piuttosto che democrazia. Dall’altra c’è un presidente di destra convinto che la libertà degli uomini sia l’ingrediente necessario per sconfiggere il terrorismo. L’uno è scettico sulla possibilità che in medio oriente possa fiorire la democrazia, l’altro è fiducioso perché, come diceva Reagan, "se possono scegliere, gli uomini scelgono sempre la libertà". La più realista delle ricette idealiste.
16 Giugno 2004