George Walker Bush (GWB), detto "Dubya", oppure "43" per distinguerlo dal padre che in famiglia è soprannominato 41, è stato eletto quarantatreesimo presidente degli Stati Uniti tre volte. La prima il 7 novembre del 2000, di martedì, il giorno che nelle democrazie anglosassoni è tradizionalmente deputato al voto perché lontano dalla paga settimanale del venerdì e, quindi, dalle sbornie del fine settimana che potrebbero annebbiare le scelte degli elettori. In Florida il conteggio dei voti si è protratto per oltre un mese. Le urne si sono chiuse definitivamente il 12 dicembre del 2000 con la sentenza della Corte Suprema federale che ha eletto Bush per la seconda volta con 5 giudici a favore e 4 contrari.
La via giudiziaria alla Casa Bianca ha provocato malumori e una buona parte degli americani considera illegittimo il presidente, nonostante tutti i successivi riconteggi, fatti da organi indipendenti e dai grandi giornali liberal, abbiano stabilito che Bush in Florida ha ottenuto 250 voti in più di Al Gore. La terza elezione di Bush è immortalata in una foto che lo ritrae dentro una scuola elementare. Accanto a lui c’è il suo assistente Andrew Card, il quale gli sussurra all’orecchio che un aereo si è schiantato sul World Trade Center. Bush considera questa terza, quella dell’11 settembre 2001, la più importante delle tre.
A Bob Woodward, inviato del Washington Post, GWB ha confessato che solo quel giorno di settembre ha capito quale fosse la sua missione. A Washington c’è chi racconta che l’unico americano non agitato durante i giorni del caos in Florida fosse proprio GWB. A tutti avrebbe detto di stare tranquilli, ché sapeva di essere lui il presidente, lo sapeva perché aveva parlato con l’Aldilà. E dall’Aldilà avevano scelto lui.
che cerco di essere".
Bush padre è un altro tipo di conservatore, è laico, molto più liberal, come lo sono i repubblicani della costa est degli Stati Uniti. Per questo negli anni della sua presidenza perse i consensi dell’America più profondamente conservatrice. Per recuperarli delegò Dubya a riallacciare il filo con la destra cristiana del sud. Nacque lì il legame di GWB con gli iper conservatori americani, la base del suo attuale consenso e la chiave delle sue successive affermazioni elettorali. Eppure Bush junior ha sempre cercato di allargare il campo del suo elettorato, governando spesso da "sinistra", tanto che da governatore del Texas riuscì a ottenere l’appoggio del capo dei democratici e una percentuale di voti, nel giorno della sua rielezione, intorno al settanta per cento.
L’idea base della politica di Bush è un conservatorismo dal volto umano, compassionevole, che unisce i dettami dello Stato minimo con la valorizzazione della famiglia.
Sembrerà strano ma GWB è sempre stato un unificatore, come gli capitò di essere anche l’11 settembre. Ora invece divide, almeno in Europa e nelle grandi aree metropolitane d’America, e ispira un odio viscerale poco razionale. Per i suoi detrattori, ha scritto Jonathan Chait, "la stessa esistenza di Bush è una forza oppressiva e costante nella propria psiche quotidiana".
Nei momenti chiave Bush blandisce e prova a rinsaldare il suo blocco elettorale. Si spiega così la decisione all’inizio dell’anno di vietare l’aborto tardivo e di sostenere un emendamento costituzionale che vieta il matrimonio gay. Fino a quel momento, paradossalmente, Bush aveva governato da sinistra. Non solo per le guerre di liberazione in Afghanistan e in Iraq, combattute con il socialista liberale Tony Blair e fin dal primo momento motivate con le armi di distruzione di massa (che non si sono trovate), con il legame con al Qaida e con la necessità di cambiare quei dispotici regimi. Secondo John Kerry, avversario democratico nella corsa alla Casa Bianca, "il programma dell’Amministrazione Bush non è il classico conservatorismo dei repubblicani, e non è neanche un conservatorismo radicale – questi sono libertari incalliti". (Libera traduzione da "extreme libertarianism"). Secondo l’Economist sarebbe meglio usare la parola "neoradicali" per definire i neoconservatori che consigliano il presidente.
Quando GWB si trovò di fronte alle Torri Gemelle e al Pentagono ancora fumanti si chiese chi avesse fatto tutto ciò e quale potesse essere la strategia più adatta ad affrontare la situazione. Bernard Lewis era l’unico che aveva capito la potenza distruttrice del fondamentalismo arabo e islamico, mentre i neoconservatori erano i soli ad avere un piano concreto: la liberazione del medio oriente e la fine dei regimi del terrore, entro i quali nasce e si sviluppa la cultura dell’odio e della morte. La dottrina Bush, codificata nel Documento strategico sulla sicurezza nazionale del settembre 2002, ha stabilito il diritto al primo colpo (first strike) per evitare che i nemici attacchino per primi, la politica del cambio di regime (regime change) con conseguente sostegno allo sviluppo della libertà e della democrazia e una lotta al terrorismo che non faccia distinzione tra organizzazioni eversive e gli Stati che le finanziano, le ospitano e le sostengono. Se gli alleati non fossero d’accordo, sostiene infine la dottrina Bush, l’America dovrà agire unilateralmente, perché la sicurezza degli Stati Uniti è più importante delle alleanze e delle istituzioni multilaterali. Principio identico a quello espresso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nel 1994, da Madeleine Albright, segretario di Stato di Clinton: "Agiremo multilateralmente quando possiamo, unilateralmente quando dobbiamo".
Bush è un "radicale con un progetto", la sua presidenza entrerà nella storia come una delle più politicamente ambiziose di tutti i tempi. John Lewis Gaddis, il più grande storico americano della Guerra fredda e membro dell’establishment accademico della East Coast liberal, tanto da occupare la cattedra di professore di storia militare a Yale, ha definito la politica di Bush "una grande strategia", una delle tre che la storia americana abbia conosciuto. Tutti i presidenti, ha scritto Gaddis in "Surprise, Security, and the American Experience" (Harvard), hanno una politica estera, ma solo pochi hanno in mente una grande strategia che delinei la missione di una nazione, fissi le priorità e ispiri le azioni politiche conseguenti. Gaddis sostiene che la dottrina Bush sia molto più seria e sofisticata di come viene descritta e, peraltro, non è neanche una grande novità. Tre dei suoi punti chiave, cioè la guerra preventiva, l’unilateralismo e l’egemonia americana, risalgono all’inizio del diciannovesimo secolo, ai tempi di John Quincy Adams, il segretario di Stato del presidente James Monroe. Nel 1814 i britannici attaccarono Washington e bruciarono la Casa Bianca e il Congresso. Questo 11 settembre dell’Ottocento convinse Adams del fatto che per garantire la sicurezza interna fosse necessaria una strategia unilaterale e di azioni preventive in tutto il continente nordamericano, perché fino a quando i governi degli Stati confinanti fossero stati deboli o guidati dalle potenze europee, il suolo americano avrebbe corso seri pericoli. Ecco perché l’America acquisì sicurezza attraverso quell’espansione territoriale che Gaddis definisce "preventiva". Nel 1941, con l’altro 11 settembre, cioè con l’attacco giapponese a Pearl Harbor, l’idea della sicurezza "nordamericana" è stata superata. Franklin Delano Roosevelt elaborò la politica della cooperazione internazionale per sconfiggere i regimi autoritari, strategia che è durata fino alla fine della Guerra fredda. Bush padre parlava di nuovo ordine mondiale, ma non riuscì a elaborare niente di nuovo, mentre Bill Clinton credeva che la globalizzazione e la democratizzazione fossero ormai processi irreversibili e quindi non ci fosse più bisogno di alcuna grande visione. L’11 settembre, spiega John Lewis Gaddis, ha reso evidente che il modello del 1945 era vecchio. L’America tornerà a essere sicura soltanto liberando il medio oriente e prevenendo che terroristi e dittature acquisiscano armi nucleari. E’ questa la strategia del presidente Bush e la nuova missione degli Stati Uniti d’America.
Secondo il direttore del New York Times, Bill Keller, GWB non è figlio del primo presidente Bush, né un repubblicano tradizionale, ma piuttosto un radicale, un visionario, il vero erede di Ronald Reagan, il presidente che fece spostare un bel po’ di liberal da uno schieramento all’altro. Allora i Reagan’s Democrats si convinsero che i repubblicani costituivano una migliore garanzia per i valori americani e per le conquiste liberali, a fronte di una sinistra infatuata dal socialismo e non ancora uscita dal trauma del Vietnam. Oggi la dottrina Bush è l’esatta continuazione della dottrina Reagan, l’ex attore parlava di "impero del male", il cowboy di "asse del male", entrambi di democrazia da esportare, entrambi hanno fronteggiato critiche e pessimismi di ogni tipo. Analisti autorevoli prendevano in giro l’idea che la libertà potesse diventare il sistema politico dei popoli oppressi dal gigante sovietico. Oggi il grande sogno democratico è in difficoltà e le ultime mosse della Casa Bianca sembrano indirizzate a ottenere più semplicemente la stabilità dell’Iraq. Resta da capire se sia un’inversione di marcia o solo un rallentamento a causa delle elezioni incombenti.
Gli altri pilastri della dottrina Bush contro il terrorismo sono la Greater Middle East Initiative, un ambizioso programma di finanziamenti alla società civile e alle piccole imprese mediorientali (sarà presentato al G-8 di metà giugno) e la riforma del sistema degli aiuti economici ai paesi poveri. Nel marzo del 2002 Bush ha annunciato il raddoppio degli aiuti e un rinnovamento delle modalità di assistenza finanziaria, proponendo il Millennium Challenge Account che veicolerà 5 miliardi di dollari l’anno verso i paesi poveri. Sebbene il Congresso non abbia ancora finanziato interamente il programma, i soldi saranno spesi in modo diverso, seguendo i criteri del rispetto dei diritti umani, civili e politici.
L’icona del rock impegnato socialmente, Bob Geldof, l’inventore del Live Aid, ha detto che "nel suo approccio all’Africa, l’Amministrazione Bush è la più radicale, in senso positivo, dai tempi di Kennedy". Sulla lotta all’Aids, nuova crociata del cantante inglese, Bush ha preso decisioni importanti al contrario di Bill Clinton che parlava tanto ma poi non faceva granché. Bush ha anche presentato un progetto di legge che riconosce a oltre dieci milioni di immigrati illegali nuovi e ampi diritti, oltre agli stessi benefici di legge di cui godono gli impiegati legali americani, inclusi il minimo garantito e il giusto processo. Bush aumenterà il numero delle green card, l’ambitissima carta verde che dà diritto a vivere e lavorare negli Stati Uniti, per richiedere la quale non sarà più necessario aspettare tre anni.
GWB è anche uno spendaccione in capo. Alla sua Amministrazione piace molto spendere, ed è una specie di eresia rispetto al credo del partito repubblicano. La presidenza Bush, in tre anni, ha portato il bilancio americano da un attivo di 167 miliardi di dollari a un passivo annuale superiore al 4 per cento del pil, intorno ai 500 miliardi di dollari. Le spese militari per liberare due paesi hanno inciso per meno del 45 per cento, il resto sono soldi destinati a fini sociali e al welfare (escluse le spese militari e della sicurezza il bilancio statale è aumentato del 6 per cento nel 2002 e di quasi il 5 nel 2003). Cinquecento miliardi di dollari, in dieci anni, sono stati destinati a medicine gratuite agli anziani e alla più grande riforma dell’assistenza medica (Medicare) degli ultimi 40 anni (soldi sprecati, usati male, dicono i liberal). Gli investimenti sulla scuola sono aumentati del 78 per cento.
Secondo i conservatori tradizionali, il mandato di Bush rischia di "distruggere" il movimento conservatore americano. L’American Conservative Union considera le politiche presidenziali troppo compassionevoli e pericolosamente vicine alle vecchie ricette liberal. Secondo questo influente gruppo di repubblicani, Bush non sarebbe abbastanza conservatore. Nessuno di loro mette in discussione la leadership del presidente, ma ai vecchi repubblicani non piace la tendenza di Bush a governare da neokeynesiano, né l’aver aumentato la spesa pubblica, né aver speso centinaia di miliardi di dollari per riformare il Medicare, né il voler ripristinare il Patriot Act, cioè la legge antiterrorismo che i repubblicani liberisti considerano una pericolosa ingerenza dello Stato nella sfera individuale.
I conservatori americani sono angustiati anche dai finanziamenti al No Child Left Behind Act, progetto di aiuti scolastici ai ragazzi rimasti indietro con gli studi preparato insieme con l’icona liberal Ted Kennedy. Il timore è che Bush e i suoi si comportino da Rinos, Republicans in name only, repubblicani solo nominalmente. I conservatori tradizionalisti si trovano, dunque, nella situazione di dover scegliere tra un presidente che amano e l’espansione della spesa pubblica che odiano. Oltre all’assistenza sanitaria e all’educazione, Bush si è impegnato a spendere soldi federali nella campagna spaziale, nella nuova frontiera su Marte, imitando John Fitzgerald Kennedy che nel 1961 annunciò il progetto che otto anni dopo portò l’uomo sulla Luna. Poi c’è il nation building in Iraq, la costosa ricostruzione del paese. Ma non c’è solo la destra tradizionale a criticare Bush il compassionevole. I libertari del Cato Institute, già oppositori dei progetti mediorientali di Bush, hanno presentato un documento dal titolo "The Republican Spending Explosion" con il quale spiegano, cifre alla mano, la deriva spendacciona dei repubblicani.
GWB, ovviamente, cerca voti al centro, e dal centro cerca di amministrare il paese, ma i conservatori duri e puri temono che questo riformismo compassionevole possa fargli perdere consensi a destra. Così, all’inizio del 2004, nel tradizionale discorso sullo Stato dell’Unione, GWB ha cercato di andare incontro alla sua base elettorale, senza però rinnegare le scelte già compiute, con il risultato che per accontentare tutti ha scontentato molti. I social conservative hanno esultato per i fondi federali destinati a propagandare l’astinenza sessuale, per i test anti droga nelle scuole, per la retorica sull’abuso di doping nello sport e per il sostegno nella battaglia contro il matrimonio gay. Ma hanno dovuto sopportare la richiesta, che piace a conservatori liberisti, di rendere permanenti i tagli fiscali. La vecchia guardia repubblicana ha portato a casa la decisione di prorogare il Patriot Act, che scade nel 2005, ma ha continuato a subire l’impeto idealista dei neocon e l’impegno presidenziale per la democratizzazione del medio oriente.
Alla destra non sono sembrate sufficienti le soluzioni proposte per ridurre il deficit in cinque anni. Quaranta deputati repubblicani hanno chiesto al presidente e alla leadership del partito al Congresso di impegnarsi subito, e con priorità massima, per fermare l’aumento della spesa che considerano quasi fuori controllo. Gli opinionisti e i ricercatori della Heritage Foundation, uno dei più prestigiosi centri studi conservatori, non sono stati meno duri: "Il presidente ha usato lo Stato dell’Unione per difendere gli aumenti della spesa pubblica, e ha annunciato altri otto nuovi aumenti della spesa". Niente di specifico, invece, sui tagli della spesa. Solo un vago accenno. Per i critici è il deficit più grande di sempre, per i Bush guys, calcolandolo in percentuale al prodotto interno lordo, è più basso di quelli dell’era reaganiana, e Reagan era solito dire che "il deficit è grande abbastanza da badare a se stesso". I soldi sono serviti per la guerra in Afghanistan e in Iraq (389 miliardi di dollari di spesa militare, 16 per cento in più rispetto al 2002), per difendere il paese dal terrorismo e per rafforzare la sicurezza. C’era anche da affrontare la recessione e la crisi post 11 settembre, Bush ha scelto la strada del liberismo e del deficit spending, insieme. Secondo liberal e destra tradizionale la ricetta non può funzionare.
Sul fronte sociale ha finanziato le associazioni religiose, ha difeso il matrimonio eterosessuale, e la legge che firmò Clinton nel 1996, ha sostituito i due membri più laici del Comitato della Bioetica con due antiabortisti sostenitori dell’ingerenza religiosa nella legislazione federale, ma ha anche varato un nuovo programma privato di assistenza per i redditi più bassi e uno da 300 milioni di dollari per il reinserimento in società di 600 mila carcerati prossimi alla libertà. Sul fronte dei diritti, la Corte Suprema a maggioranza repubblicana ha confermato le affirmative action in favore delle minoranze e costituzionalizzato i diritti delle coppie omosessuali che si avviano ad avere riconosciuto lo status giuridico.
Il taglio di tasse di Bush è il terzo più grande della storia degli Stati Uniti. Sono 350 miliardi di dollari che resteranno nelle tasche degli americani fino al 2007. La decisione segue quella fatta all’inizio del mandato che costituì l’ineguagliabile record di detassazione di tutti i tempi: 1.350 miliardi di dollari in dieci anni. In un paese nato da una rivolta fiscale, e dove il denaro non è considerato sterco del diavolo, il dibattito politico è su quanti soldi i cittadini debbano versare allo Stato perché questo poi li restituisca sotto varie forme e a beneficio dell’intera società. Destra e sinistra, insieme, credono che i singoli americani e le aziende possano spendere meglio dello Stato i soldi guadagnati e che l’economia possa giovarsene. La divisione tra i due schieramenti politici è stata soltanto sull’entità e sulla qualità del taglio delle imposte.
All’altro fronte, quello dei democratici, Bush ha rubato l’idea del Dipartimento della Sicurezza nazionale, cavallo di battaglia dei Democratici e del senatore Joe Lieberman, a oggi il programma di assunzione più grande d’America. I liberal contestano il Patriot Act, che al Senato ottenne anche il voto di Kerry. Il Patriot Act coordina le attività di intelligence e di polizia e mette in comunicazione le principali agenzie che difendono la sicurezza del paese, insomma affronta di petto quel buco investigativo che l’11 settembre permise ai kamikaze di riuscire nell’impresa. I critici di destra e di sinistra sostengono che violi le immense libertà individuali degli americani, ma se questo è il prezzo per evitare un altro attacco gli americani sembrano ben disposti a rinunciare a un pizzico di privacy, tanto più che il numero delle intercettazioni telefoniche autorizzate è ridicolo se paragonato a quelle, per esempio, effettuate ogni anno in Italia. La sospensione dell’habeas corpus in casi sospetti di terrorismo riguarda soltanto due cittadini americani, Jose Padilla e Yaser Hamdi, i cui casi sono già al vaglio della Corte Suprema, mentre gli stranieri in galera dopo l’11 settembre sono 762, un numero alto ma non di molto superiore a uno dei nostri blitz antimafia. L’Amministrazione, peraltro, ha deciso per la prima volta nella storia degli Stati Uniti di vietare il racial profiling, cioè le indagini poliziesche incentrate sulla razza, con le ovvie eccezioni legate alla lotta al terrorismo.
Bush è molto criticato per la sua politica ambientale, tanto che l’anno scorso la sua ministra dell’Ambiente si è dimessa. Uno dei punti di attrito era lo sfruttamento delle risorse petrolifere dell’Alaska, idea bushiana per rendere l’America meno dipendente dal petrolio mediorientale ma giudicata una catastrofe dal punto di vista ambientale. Oggi, però, uno dei punti centrali del programma energetico di John Kerry è proprio quello di rendere gli Stati Uniti liberi dal greggio saudita. Ha fatto scalpore l’altra idea bushiana di combattere i giganteschi incendi americani con la riduzione delle foreste. Sghignazzi a parte, si tratta di una teoria seria, studiata da un professore della Northern Arizona University, già applicata con successo nel sudovest del paese e che prevede di estirpare il sottobosco che funge da combustibile e fa salire il fuoco fino alla cima agli alberi. A Bush viene imputato anche di non voler impegnare il suo paese nel trattato di Kyoto (oltre che sui sistemi antimissili e sulla corte penale internazionale), ma pochi ricordano che Bill Clinton firmò il protocollo poche ore prima di lasciare la Casa Bianca, e solo per scaricare i suoi imbarazzi sul successore.
Quando lasciarono la Casa Bianca, gli uomini di Clinton fecero un altro scherzetto a Dubya, tolsero dalle tastiere di tutti i computer la lettera W. Il presidente, invece, come primo atto simbolico fece chiudere l’accesso privato allo Studio Ovale di cui si serviva Monica Lewinsky. Il senso di austerità impresso da Bush alla vita washingtoniana è evidente e segna una svolta radicale rispetto all’epoca godereccia di Clinton. Il presidente va a letto intorno alle otto di sera, si alza poco prima delle 5 del mattino e fino a qualche mese fa si faceva vanto della segretezza e dell’impermeabilità alla stampa della sua Amministrazione. Poi, aperta la prima falla con il libro del suo ex Segretari al Tesoro, Paul O’ Neill, la fortezza è stata tempestata da ogni tipo di fuga di notizie, comprese quelle sulla guerra interna tra Dipartimento di Stato e Pentagono.
Lo stratega di Bush è Karl Rove, 53 anni, faccia da bimbo innocente, pelle chiara e occhi azzurri, riservatissimo senior political advisor. E’ l’uomo più temuto di Washington ed è stato definito "il cervello di Bush" da un libro dell’anno scorso. Karl Rove sta dietro tutte le grandi decisioni della Casa Bianca ma c’è chi dice che la stampa sopravvaluti il ruolo di Rove. La First Lady, Laura Bush, in una recente intervista al New York Times, ha detto che Rove si compiace di questo ruolo sovrumano che gli si attribuisce, e ovviamente non fa niente per smentirlo. E’ stato lui, si dice, a orchestrare l’atterraggio di Bush sulla USS Lincoln in versione Top Gun per dichiarare "compiuta" la missione in Iraq. Avrebbe dovuto essere il più formidabile spot elettorale, ma ora rischia di fargli perdere la Casa Bianca. "Missione compiuta" è una frase che non porta fortuna. Nel 1998 la pronunciò anche Madeleine Albright, dopo i bombardamenti (operazione Desert Fox) contro Saddam.
Prima di arrivare alla Casa Bianca il gabinetto di guerra di Bush si faceva chiamare "Vulcans", da Vulcano, il Dio del fuoco e fabbro degli dei, la cui statua alta venti metri domina Birmingham, Alabama, sede di industrie dell’acciaio e città natale di Condoleezza Rice. Gli altri consiglieri di Bush sono Dick Cheney, Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz, Richard Perle, Colin Powell e Richard Armitage, i migliori esperti di affari esteri a disposizione del partito repubblicano: neocon, realisti e conservatori, amici e nemici di suo padre. Il nome del gruppo, Vulcans, rende bene l’immagine della politica estera di Bush: forte, potente, coraggiosa, arrogante ma contemporaneamente, viste le biografie dei suoi uomini, sia unilaterale che multilaterale, sia idealista che realista. GWB è un presidente che delega molto, che cerca di tenere tutti insieme, ma alla fine è lui a prendere le decisioni, comprese quelle discordanti di questi mesi sulla gestione dell’Iraq.
Chi sostiene, magari come Michael Moore, che Bush sia l’archetipo dello "stupido uomo bianco" non sa che cosa dice. Venerdì, ospite allo show di David Letterman, Bob Woodward, che ha avuto modo di incontrare a lungo il presidente, ha ridicolizzato chi crede che GWB sia poco intelligente. Bush s’è laureato a Yale, stessa università di Kerry, con voti medio-alti che nessun giornalista sfottitore probabilmente sarebbe in grado di ottenere. Bush però è l’esatto opposto di John Kerry. Sono entrambi rampolli di elitarie famiglie della costa est, ma mentre Kerry ha sempre cercato di scalare il vertice dell’establishment, grazie a facoltosi matrimoni e ad aristocratiche frequentazioni, GWB ha sempre tentato di discostarsene, preferendo gli stivali da cowboy ai tuxedo, il suo ranch texano all’alta società della costa orientale. Il 2 novembre si saprà quale delle due americhe avrà vinto.
Un importante diplomatico clintoniano ha spiegato che i suoi connazionali sanno che un’eventuale sconfitta elettorale di Bush sarà interpretata dagli islamisti come una vittoria della loro strategia del terrore, per questo tutto sommato Bush sarà rieletto. Comunque vada, Bush o Kerry, c’è da dire che avrà pur sempre vinto un americano.
1 Giugno 2004