Camillo di Christian RoccaKerry, il candidato figlio di Bush padre

John Forbes Kerry (JFK), sessantunenne senatore Democratico del Massachusetts, è un mistero. Nessuno può veramente giurare che tipo di presidente sarebbe se il 2 novembre prossimo riuscisse a battere George W. Bush e a insediarsi alla Casa Bianca. Il suo record da senatore dice tutto e il contrario di tutto. Secondo le associazioni indipendenti che hanno scandagliato la sua attività parlamentare, Kerry è uno dei senatori più liberal, cioè più di sinistra, del paese. Voti alla mano, pur non essendo riuscito in 19 anni a far passare nessuna legge importante a suo nome, Kerry risulta ben più liberal di Ted Kennedy. Se gli americani si convincessero di questo difficilmente Kerry sarebbe eletto, come capitò già ad altri liberal del Massachusetts quali Paul Tsongas e Mike Dukakis. L’unico precedente in suo favore è quello di un altro senatore di Boston, cattolico come lui e con le identiche iniziali sulla camicia: JFK, John Fitzgerald Kennedy.

John Kerry è contrario alla pena di morte, favorevole con juicio all’aborto e alla ricerca scientifica sulle cellule staminali, vuole aumentare la paga minima sindacale e ha sempre detto di no agli aumenti di spesa militare imposti da Ronald Reagan per sconfiggere l’impero sovietico. Ma, contemporaneamente, Kerry è anche uno dei senatori più centristi e meno ultrà di Washington, tanto da essersi guadagnato in campagna elettorale l’appellativo di "Bush light", una versione pallida di Bush, definizione coniata dal suo avversario di partito Howard Dean. Kerry, infatti, ha votato sia per il Patriot Act, la legge che la sinistra americana rumorosamente definisce liberticida, sia per il No Child Left Behind Act, la legge per far recuperare i ragazzi rimasti indietro con gli studi, sia per la guerra in Iraq, cioè per tre dei quattro pilastri della politica di Bush. Kerry si è opposto soltanto al gigantesco taglio delle tasse ma non perché contrario, solo perché eccessivo. Kerry, infatti, propone di mantenere la riduzione fiscale e di abolire l’abbattimento delle imposte per i redditi superiori ai 200 mila dollari.
Sull’Iraq la posizione di Kerry non è lineare, anzi è confusa. E’ stato uno dei pochi senatori che nel 1990/91 si oppose alla prima guerra del Golfo, e infatti i repubblicani dicono che se fosse dipeso da Kerry, Saddam non solo sarebbe ancora a Baghdad ma governerebbe anche a Kuwait City. Negli anni di Bill Clinton, però, JFK fu uno dei più audaci sostenitori dell’Iraq Liberation Act, la legge approvata dal Congresso per finanziare l’opposizione irachena, cioè Ahmed Chalabi, e che stabilì il regime change, cioè il cambio di regime, come la politica ufficiale degli Stati Uniti nei confronti di Baghdad.
L’anno scorso, con il suo voto al Senato, JFK ha autorizzato Bush a invadere l’Iraq, ma nei mesi delle primarie ha dovuto fronteggiare la stella pacifista di Howard Dean, e per farlo è stato costretto a rimodulare la sua posizione. Che è diventata questa: ho votato per la guerra, ma solo con un ampio coinvolgimento internazionale. Nel 1991 la motivazione del suo no all’intervento fu opposto: allora, secondo Kerry, Bush padre aveva pensato troppo alle alleanze internazionali e non aveva coinvolto gli americani.
Incalzato dall’ascesa di Dean, Kerry ha votato contro il finanziamento della missione Iraqi Freedom (67 miliardi di dollari) e contro il pacchetto di aiuti per la ricostruzione del paese (20 miliardi di dollari). Sconfitto Dean, quel voto contrario è diventato un problema per JFK, tanto che la sua principale arma retorica contro la cattiva gestione bushiana del dopoguerra iracheno s’è impantanata. Kerry ha cercato di riparare, di recuperare, di mediare, ma è incappato in diretta televisiva in una gaffe che negli spot repubblicani è diventata un tormentone sui suoi proverbiali tentennamenti. Al giornalista che gli chiedeva come potesse criticare il dopoguerra iracheno avendo negato il suo voto al finanziamento della missione e agli aiuti per il nuovo Iraq, lo sventurato Kerry rispose: "I actually did vote for the 87 billions, before I voted against", "in realtà ho votato a favore degli 87 miliardi, prima di aver votato contro". Kerry aveva votato a favore del pacchetto pro Iraq con un emendamento che intendeva prendere i soldi sottraendoli alla riforma fiscale di Bush ma, una volta bocciato l’emendamento, ha votato contro lo stanziamento degli 87 miliardi.
In questa gaffe c’è tutto Kerry, c’è il candidato che evita di decidere per tenere insieme ogni cosa, i liberal e il centro, i laici e i religiosi, i pacifisti e i falchi. Kerry ha il problema che da candidato di sinistra perde i voti moderati necessari in quei 14 Stati in bilico tra lui e Bush. Se fa il candidato più conservatore apre una falla a sinistra a vantaggio del guastatore Ralph Nader.
Lo chiamano flip flopper, uno che cambia spesso idea. Quando ha incontrato Nader, i comici televisivi hanno fatto battute di questo tipo: "Oggi si sono visti Kerry e Nader, le due posizioni contrapposte sulla guerra sono state messe a confronto, poi ha parlato Nader". Il New York Times lo difende sempre e sostiene che "quella che i suoi critici vedono come incapacità di prendere posizioni forti e chiare a noi sembra una valutazione che la vita non è così semplice. Kerry capisce le sfumature e le scale di grigio". Il Washington Post non è d’accordo: "I tentativi di intrecciare i fili e di giustificare tutte queste posizioni non sono convincenti".
Su ogni argomento Kerry ha tre posizioni: sì, no, aspettiamo-un-po’-e-vediamo-che-succede. Non trova mai un lato di una questione che non gli dispiaccia, dicono nel suo partito. Quando nel 1991 si oppose alla guerra del Golfo, inviò lettere con due posizioni diverse. A Wallace Carter, il 22 gennaio 1991, scrisse di condividere le sue preoccupazioni pacifiste tanto da aver votato contro la guerra, ma nove giorni dopo gli spedì un’altra lettera dicendo di sostenere inequivocabilmente l’intervento in Iraq.
JFK ha votato contro la pena di morte per i terroristi, ma ora dice di essere favorevole. Vuole cacciare gli "interessi particolari" dalla Casa Bianca, ma è il senatore che negli ultimi 15 anni ha ricevuto più finanziamenti dalle lobby. Ha comunicato che da presidente non nominerà giudici antiabortisti, poi quando i Democratici pro life sono insorti, si è corretto: "Intendevo nelle corti locali, non alla Corte Suprema". Con Kerry il sì non è mai sì, il no non è mai no. Anche sul matrimonio gay non ha le idee chiarissime o cerca di piegarle alla convenienza del momento. Gli è capitata la sfortuna che il suo Stato, il liberal Massachusetts, abbia legalizzato il matrimonio gay, ma siccome le sfortune non arrivano mai da sole, la capitale del Massachusetts ospiterà anche la convention Democratica che lo incoronerà sfidante di Bush. Kerry teme che gli americani facciano due più due: Kerry più Boston più Massachusetts, detto anche Tassachusetts, uguale matrimonio gay. Quindi ha precisato che la sua posizione è uguale a quella di Dick Cheney, che ha una figlia lesbica. La posizione è questa: il governo federale non si occupi della questione, che deve restare di competenza degli Stati.
Stratagemma che gli è servito per dire di no all’emendamento costituzionale federale che vieta il matrimonio omosessuale e per lasciare aperta la possibilità che ogni singolo Stato faccia come creda. Ma c’è un però, come per ogni posizione di Kerry. Se sulla procedura ha la stessa posizione di Cheney, nel merito condivide le preoccupazioni di Bush: "Mi oppongo al matrimonio gay e non sono d’accordo con la decisione della Corte del Massachusetts". La soluzione, per Kerry, è quella di riconoscere i diritti delle coppie gay e delle lesbiche attraverso le "unioni civili". Solo che Kerry ha sempre agito e votato diversamente. Quando nel 1996 Bill Clinton fece sapere che avrebbe firmato il Defense Marriage Act che definiva il matrimonio come l’unione tra un uomo e una donna e che, esplicitamente, vietava le nozze gay, John Kerry fu uno dei soli 14 senatori che vi si oppose. Anzi, sostenne che quella legge, che ora sostiene, era simile ai tentativi razzisti fatti negli anni Sessanta al Sud per criminalizzare i matrimoni interrazziali: "Questa è una legge incostituzionale, senza precedenti e non necessaria", disse con una frase che ora ripete sostituendo la parola "legge" con le parole "guerra in Iraq". Due anni fa, infine, Kerry firmò insieme con altri colleghi del Congresso una lettera con la quale chiedeva al Parlamento del Massachusetts di far cadere l’emendamento che metteva fuori legge le nozze omosessuali. Cioè, il contrario di quello che dice ora. Lo ha fatto, dice oggi un suo portavoce, perché quella proposta avrebbe minacciato le unioni civili: "La sua posizione è cristallina, John è per le unioni civili, non per il matrimonio gay. E’ così chiaro". E’ così chiaro che Karl Rove, lo stratega di Bush, il prossimo mese farà presentare al Senato l’emendamento costituzionale sui matrimoni gay, proprio per inchiodare Kerry al suo flip flopping.
JFK è il classico cattolico liberal d’origine irlandese del Massachusetts, ai cortei bostoniani in onore di san Patrizio è sempre in prima fila. Solo che, in realtà, non è il classico cattolico liberal di origini irlandesi del Massachusetts. Lo è soltanto da parte di madre. Il Boston Globe infatti ha scoperto che Kerry è anche un po’ ebreo. Suo nonno si chiamava Fritz Kohn ed è nato nella Repubblica ceca. Kerry ha così appreso di aver avuto un paio di lontani parenti morti nell’Olocausto: "Sono davvero commosso nell’apprendere questa cosa", ha detto Kerry spendendosi la notizia con la comunità ebraica. Agli ebrei di New York ha detto che, in caso di elezione, sarebbe il primo presidente americano di origine ebraica. Ma i voti ebraici sono già un patrimonio del partito Democratico. Così, un anno fa, davanti a una platea di arabi americani del Michigan, Kerry ha criticato aspramente la politica di Ariel Sharon. A proposito della barriera difensiva lungo la linea di confine con i territori palestinesi ha detto che "non abbiamo bisogno di un altro ostacolo alla pace. Misure provocatorie e controproducenti non fanno altro che danneggiare Israele, aumentare le difficoltà del popolo palestinese e rendere più difficili i negoziati per un accordo". Quando, invece, un paio di mesi fa è andato a cercare voti ebraici in Florida, Kerry ha detto che il muro di Sharon "è un legittimo atto di autodifesa". In televisione, a Meet the Press, ha ribadito che Sharon ha perfettamente ragione e che Bush fa bene ad appoggiare il suo piano di ritiro unilaterale da Gaza. Yasser Arafat, invece, "è un partner di pace impossibile per Israele" perché "coinvolto negli attentati terroristici".
Nella sua autobiografia spiega così il rapporto con la religione: "Sono un credente e un cattolico praticante, sposato con un’altra credente e praticante cattolica. Essere un cattolico americano in questo particolare momento della storia ha tre particolari implicazioni. Le prime due conseguono direttamente da due dei Comandamenti fissati nelle Scritture: il nostro obbligo di amare Dio con tutto il nostro cuore, la nostra anima, il nostro spirito e di amare il nostro prossimo come noi stessi. Il primo comandamento significa che dobbiamo credere che ci siano livelli assoluti di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato. Potrebbero non essere sempre chiari, ma esistono. Ed è nostro dovere onorarli nel modo migliore possibile. Il secondo comandamento vuol dire che il nostro impegno per l’uguaglianza dei diritti e per la giustizia sociale, qui e nel mondo, non è semplicemente una questione politica o economica o di teoria sociale, ma è un ordine diretto che proviene da Dio". Non è Bush, è il senatore liberal sostenitore della separazione tra Stato e Chiesa, il quale però dice di credere "in Dio e nel potere della redenzione".

La sindrome Vietnam
La carriera politica di John Kerry è nata nella stagione del Vietnam. In Indocina ha combattuto con onore, anche se il gruppo dei "Veterans against Kerry" lo mette in dubbio. L’eroe del Vietnam, in ogni caso, è diventato uno dei più efficaci portavoce dei "Veterani contro la guerra", un pacifista. Nel 1971 Kerry contribuì a organizzare la grande marcia pacifista di Washington nel corso della quale si tolse pubblicamente le decorazioni dalla divisa, salvo poi recuperarle e conservarle in attesa di tempi migliori, cioè questi in cui si candida alla presidenza degli Usa da eroe di guerra. Kerry è l’emblema della sinistra americana che non riesce a liberarsi dalla sindrome del Vietnam. In una famosa audizione al Senato del 1971 denunciò le torture, gli stupri e le nefandezze dei soldati americani sulla popolazione vietnamita. La gran parte dei veterani non gliel’ha mai perdonata, lui ora ammette che molte di quelle accuse si sono rivelate false. Nel 1992, quando i repubblicani attaccavano Clinton per non aver combattuto in Vietnam, Kerry disse che non c’era "alcun bisogno di dividere l’America tra chi ha fatto il militare e chi no". Ora invece lascia che i suoi accusino Bush di aver servito il paese nella Guardia Nazionale in Texas, invece che al fronte.
Il nome di Kerry è legato anche a una brutta storia, solo nelle ultime settimane ripresa dai grandi giornali. Nel 1971 Kerry era il portavoce dei Veterani contro la guerra in Vietnam, un gruppo che a poco a poco si mise a propagandare tesi maoiste e a tifare apertamente per i vietcong. A un certo punto il gruppo si riunì e decise di passare alla lotta armata e di uccidere i politici favorevoli alla guerra. Kerry era ovviamente contrario e si dimise subito dopo quella riunione, alla quale ha sempre detto di non aver partecipato. Negli ultimi mesi sono spuntati parecchi testimoni che hanno confermato la presenza di Kerry alla riunione incriminata. Ora lui dice che non ricorda più se abbia partecipato a quella riunione.

Abbasso Bush non basta
La strategia dei primi mesi di campagna elettorale è stata quella di evitare strappi o posizioni elettoralmente pericolose. Kerry ha resistito fino al mese scorso, quando le critiche degli editorialisti lo hanno convinto a dire che cosa farebbe dell’Iraq se fosse eletto presidente. "Abbasso Bush non basta, dica che cosa vuole fare", aveva scritto Fareed Zakaria su Newsweek. Così, improvvisamente, JFK è passato dal dire che "abbiamo un presidente che ha sviluppato ed esaltato una strategia di guerra unilaterale, preventiva e profondamente minacciosa per il ruolo dell’America nel mondo e per la sicurezza e il progresso della nostra società" a spiegare che non critica Bush "per aver fatto troppo, ma perché ha fatto troppo poco". Dire semplicemente che "l’Amministrazione Bush ha perseguito la più arrogante, inetta, sconsiderata e ideologica politica estera della storia moderna" è stato molto utile per fronteggiare e sconfiggere la colomba Dean, ma una volta ottenuta la nomination il tono è cambiato: "Non aspetterò la luce verde dall’estero se c’è in gioco la nostra sicurezza" e "non esiterò a ordinare azioni militari dirette". Anche unilaterali? Certo. Kerry non è più il Kerry candidato alle primarie del Congresso che nel 1970 diceva che avrebbe voluto vedere le truppe americane in giro per il mondo "soltanto sotto il comando delle Nazioni Unite". Non è più neanche il senatore che negli anni di Clinton, a guerra fredda vinta, si batteva per ridimensionare e tagliare i fondi all’ormai inutile Cia.
Il Kerry contemporaneo spiega che per affrontare la crisi di Haiti dei mesi scorsi avrebbe mandato truppe "anche senza l’appoggio internazionale" e che lo avrebbe fatto "unilateralmente", perché la cosa più importante è difendere la democrazia. A giugno, per essere più chiaro, Kerry ha convocato tre volte i giornalisti per delineare la sua politica estera, di sicurezza e contro la diffusione delle armi di sterminio. In queste tre occasioni è sembrato molto simile a George W. Bush. Sbaglia chi pensa o spera che il suo approccio sia di radicale rottura rispetto a quello di Bush. Né il protocollo di Kyoto né la Corte penale internazionale saranno ratificati e nessun presidente accetterà mai l’idea che per la difesa americana sarà necessaria l’autorizzazione Onu. Secondo il Washington Post, "Kerry resiste alla tentazione di distinguersi da Bush con coraggiose ma irresponsabili proposte di abbandonare la missione in Iraq" e "non ha adottato la retorica quasi isterica di Al Gore". Al contrario, sull’Iraq, come sul terrorismo, come sulle armi, Kerry "ripropone le politiche di Bush". Secondo Fareed Zakaria, è Bush quello "impegnato ad attuare le proposte di Kerry". Comunque la si pensi, le proposte ormai sono indistinguibili.
JFK è un convinto internazionalista ma dice che "non possiamo lasciare che la nostra sicurezza nazionale venga decisa da quelli che, pensando al Vietnam, si oppongono automaticamente a qualsiasi intervento americano nel mondo, né la nostra agenda può essere definita da chi vede il potere americano come la principale forza del male nel mondo". Chi crede che la presidenza Kerry ballerà minuetti con l’Europa deve leggere l’autobiografia di JFK per capire che non sarà così: "Francia, Germania e Russia non hanno mai sostenuto né offerto una credibile politica per verificare che le risoluzioni Onu sull’Iraq fossero davvero adempiute. Ed è chiaro come la Francia stia flirtando con la rinascita della fantasia di De Gaulle di fare dell’Europa un contrappeso indipendente al potere americano, ovviamente guidato da Parigi. Così, per ciò che riguarda la Germania, il neopacifismo che sta dietro il suo no alla guerra contro Saddam rischia di far diventare la Nato uno strumento senza mordente, irrilevante per la sicurezza collettiva dell’Alleanza atlantica".
A Seattle JFK ha detto: "Oggi stiamo combattendo una guerra globale contro un movimento terrorista deciso a distruggerci. I terroristi di al Qaida e i killer che li emulano sono diversi da qualsiasi avversario la nostra nazione abbia mai affrontato. Da presidente il mio primo obiettivo di sicurezza sarà prevenire che i terroristi acquisiscano armi di uccisione di massa. Al Qaida è una rete con molte diramazioni, per questo dobbiamo portare la battaglia sul territorio del nemico, in ogni continente, e arruolare gli altri paesi alla nostra causa". Riconoscimento del nemico, pericolo di armi di distruzione di massa, azioni preventive, portare la battaglia nei luoghi dove si trova il nemico, queste parole sono "l’architettura di una nuova politica di sicurezza nazionale" confermata dal Documento strategico che gli advisor di Kerry hanno preparato a dicembre per contrapporre alla dottrina Bush un’alternativa del partito Democratico. Le differenze sono minime. Non c’è spazio per lo zapaterismo nel kerrysmo. Kerry non parla di ritiro delle truppe, piuttosto di inviarne di più. L’intera strategia di Kerry, specie ora che Bush ha riportato la gestione sotto l’egida dell’Onu, è riassumibile nell’espressione "me too, but better", "anch’io, ma meglio". Sull’Iraq, e contro il terrorismo, oggi Kerry dice che farebbe le stesse identiche cose di Bush, ma con più attenzione alle alleanze internazionali, insomma le farebbe "meglio". "Nonostante la retorica, Bush e Kerry sono d’accordo su molte questioni", ha scritto il Washington Post.
Kerry sarà un presidente muscolare, per lui l’America dovrà sempre essere "il supremo potere militare del mondo", una frase da far impallidire i neoconservatori. Se dipendesse da lui manderebbe un numero di truppe sufficientemente alto da vincere non soltanto la guerra, ma anche la pace. La critica alla "guerra leggera e high tech" di Donald Rumsfeld è evidente, anche se nel suo libro autobiografico, al contrario, ha scritto che sebbene Rumsfeld non sia riuscito a rivoluzionare tecnologicamente l’apparato militare "aveva ragione a sfidare la resistenza dei generali al cambiamento".
Chi la sa lunga sostiene che Kerry dovrà lottare contro l’idea che una eventuale sconfitta di Bush possa essere interpretata dai terroristi come una loro vittoria. Se gli americani pensassero questo, Kerry sarebbe spacciato. Per questo non fa altro che spiegare che la sua politica anti terrorismo "riguarda non soltanto che cosa dobbiamo fare, ma anche che cosa dobbiamo prevenire. Dobbiamo assicurarci che gli Stati fuorilegge e i terroristi non si armino con armi di sterminio". Kerry parla esplicitamente di "necessità di una forza che vada incontro alle esigenze di difesa del territorio nazionale, che colpisca le minacce prima che raggiungano le nostre coste e che prevenga l’eventualità che armi cadano nelle mani di Stati fuorilegge e terroristi". Pare Bush.
Sconfiggere un presidente in tempo di guerra è impresa quasi impossibile. Kerry punta sulla teoria del "meno peggio". Sa di non essere un candidato che scalda i cuori ma sa anche che può sperare negli errori di Bush, nella situazione irachena e nell’odio di mezza America nei confronti del presidente. Un anno fa Kerry era convinto che la campagna si giocasse prevalentemente sull’economia, "jobs, jobs, jobs", diceva sempre per non parlare di guerra. Ora che l’economia va bene e che negli ultimi tre mesi è tornato un milione di posti di lavoro, la speranza di elezione di Kerry risiede nel caos iracheno. JFK cerca di accreditarsi come uno serio, un senatore con l’esperienza internazionale giusta, uno che non rincorrerà idealismi né grandiosi e ingenui progetti liberatori del medio oriente. Questo nonostante i suoi consiglieri siano i falchi clintoniani, da Sandy Berger a James Rubin a Richard Holbrooke, le cui idee di interventismo e universalismo democratico in Bosnia, in Kosovo e a Timor Est non sono così lontane dalla dottrina neoconservatrice. Ma, nelle ultime settimane, dai discorsi di Kerry è scomparsa la parola "democrazia". L’obiettivo è la "stabilità", dice ora Kerry, l’unico vero interesse americano.
Diffondere la democrazia in medio oriente non sarà l’obiettivo principale della sua presidenza. Kerry è arrivato a definire "controproducente" anche la battaglia non violenta dei democratici cubani riuniti intorno al Progetto Varela, e questo certo non lo aiuterà a vincere in Florida. Squadra clintoniana, dunque, ma al momento la sua politica estera è kissingeriana, ha scritto su Atlantic Monthly Joshua Micah Marshall, il quale si è stupito del fatto che i collaboratori di Kerry, da Rand Beers a Dan Feldmam, si vantino di avere le stesse posizioni realiste e di destra di Brent Scowcroft, il consigliere per la sicurezza nazionale di Bush padre nonché "campione di quella politica estera cinica e tutt’altro che visionaria che sacrifica i valori americani al fine di raggiungere relazioni stabili con le grandi potenze". John Kerry è figlio di Bush padre, sentenzia sgomento Marshall. Kerry è un "realista che guarda avanti", conferma Sandy Berger. "Kerry è più falco di Bush" scrivono i pacifisti sui giornali. "Kerry se ne deve andare", denuncia la sinistra del Village Voice.
Far parte dell’élite di sinistra del paese non aiuta a prendere voti nel midwest e nel sud. Kerry ha studiato in Svizzera e a Yale, parla francese e dice qualche parola d’italiano. Sua moglie Teresa Heinz, la monopolista del ketchup, per fargli un complimento dice che sembra un francese. Kerry è alto un metro e novantatrè, magro, ha le spalle a spiovere, una voce baritonale e la faccia così lunga e stentorea da essere perfetta per il monte Rushmore in South Dakota. L’aspetto, la postura, il censo familiare e delle sue due mogli è patrizio, presidenziale. Secondo Ted Kennedy, Kerry si sente più a suo agio a Davos sorseggiando grandi rossi francesi da 400 dollari a bottiglia piuttosto che nell’America vera con una diet coke in mano. Gli piacciono gli sport elitari come il windsurf, il motociclismo, le acrobazie aeree nel cielo. E’ uno sportivo, uno sportivo vero, va in mountain bike, al college giocava a hockey, (suo compagno di squadra era l’attuale capo dell’Fbi Robert Mueller) uno sport popolare per vincere le elezioni in Canada non in America. "Aloof" è l’aggettivo che più gli si addice. Vuol dire distaccato, con la puzza sotto il naso. Gli avversari dicono che si faccia iniezioni di Botox per rinfrescare le rughe sul viso, ma lui nega. Con Silvio Berlusconi condivide anche un’altra cosa, oltre alla straordinaria ricchezza e alla lotta contro le rughe: nel 1961 ha inciso un disco con gli Electras, un gruppo rock del New England nel quale suonava il basso elettrico.
Kerry è molto elegante, troppo per l’America reale. E’ haughty, che significa altezzoso. Ma se solo riuscisse a convincere gli americani di essere un Bill Clinton senza l’oral sex potrebbe anche vincere le elezioni.

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