Camillo di Christian RoccaTutti reganiani

Cowboy, ignorante, poco attento ai dettagli, gaffeur, guidato dai falchi del suo Gabinetto, sdoganatore della destra religiosa, ideologo pericoloso, inutilmente ottimista, guerrafondaio, estremista della riduzione delle tasse a beneficio dei ricchi, fondamentalista che vede solo bianco o nero, ossessionato dal nemico, manicheo e fanatico della lotta contro il Male. Era Ronald Reagan, ora è George W. Bush. Come scrisse Bill Keller, direttore del New York Times, in un ritratto del gennaio 2003, politicamente Bush non è figlio di suo padre, ma di Reagan. Gli manca solo il carisma e la disinvoltura di Bill Clinton per essere tale e quale l’ex attore. Reagan affrontò di petto, tra lo scetticismo generale, l’impero del male, Bush l’asse del male. Entrambi si sono serviti dell’apporto ideologico dei neoconservatori per battersi contro i rispettivi totalitarismi, entrambi hanno creduto fideisticamente nella riduzione delle tasse per stimolare l’economia e nel supporto della destra cristiana per vincere le elezioni. Eppure questa lettura sui giornali italiani non c’è, fatta eccezione per l’attento Maurizio Molinari sulla Stampa (che ha pubblicato anche un’intervista di Paolo Mastrolilli a Milton Friedman). C’è anche l’eccezione del Giornale con due informatissimi articoli di Nicola Porro e Alberto Pasolini Zanelli.

Ronald Reagan ha cambiato la storia del mondo eppure da noi è stato trattato quasi da morto qualunque. Reagan stava male da dieci anni, per i quotidiani era uno di quei personaggi dei quali si tengono nei cassetti i coccodrilli, gli articoli preconfezionati e pronti per essere pubblicati per onorare la vita di un personaggio nel giorno della sua morte. E’ come se i giornali di domenica fossero stati presi di sorpresa. E’ capitato anche al New York Times, la cui edizione di domenica era imbarazzante per la povertà di articoli e commenti sull’ex presidente. Una figuraccia, fatta notare dal Weekly Standard, se paragonata al tributo che il Washington Post ha offerto all’ex presidente. Il giornale di New York ha recuperato ieri, ma in generale ha confermato l’odio anti Reagan anche nel giorno della sua morte.
Gianni Riotta sul Corriere ha elogiato Reagan tradendo qua e là antichi e ormai sopiti sentimenti antireaganiani. Scrive Riotta che i temi della sua rivoluzione, cioè i tagli fiscali, riarmo, lotta allo Stato assistenziale e al comunismo erano "più retorica che reale", "più nelle parole che nei fatti". L’Urss, però, è caduta davvero, nei fatti. Riotta ricorda come nei paesi comunisti Reagan divenne l’eroe dei dissidenti, cosa che all’epoca sarebbe stato sacrilego far notare, e aggiunge che "in America Latina la sua passione per la democrazia, costretta dalla Guerra fredda, langue e il suo sostegno alla sporca guerra in Argentina e alle operazioni paramilitari in Centro America sono le pagine più infelici della sua biografia". Vero, però quando Reagan arrivò alla Casa Bianca le democrazie latinoamericane erano soltanto due, mentre quando la lasciò erano solo due i paesi senza elezioni.

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Nei commenti sono scomparse le feroci critiche degli anni 80, più toste delle attuali a Bush, come quelle sull’installazione in Europa dei Cruise e dei Pershing. Nella penna dei giornalisti democratici improvvisamente Reagan diventa l’emblema di una destra normale, seria, tollerante, non ideologica, dimenticando che era la stessa di quella odierna sia negli uomini sia nelle idee. Repubblica ha affidato l’analisi della rivoluzione economica di Reagan a un ottimo articolo di Federico Rampini, il quale nelle ultime righe riconosce in Bush il continuatore della rivoluzione reaganiana. Repubblica ha avuto anche l’ideona di intervistare un politico italiano sull’eredità di Reagan, e tra un migliaio di parlamentari a disposizione ha scelto Armando Cossutta, il più sovietico dei leader comunisti. Cossutta loda Craxi che a Sigonella disse di no a Reagan, perché i veri amici devono saper dire di no, come da spot dell’Ulivo. Così Repubblica, anche in morte di Reagan, riesce a parlare male di Berlusconi. Eugenio Scalfari ai tempi definiva Reagan un volgare, ignorante e incapace politicante di secondo livello che avrebbe condotto gli Usa al declino definitivo, giudizio a poco a poco modificato, specie sugli euromissili, e culminato in un’intervista molto benevola al presidente. Vittorio Zucconi sembra un reaganiano della prima ora, pur sminuendo i suoi meriti nella Guerra fredda, ha tratteggiato un elogio postumo della "destra col sorriso" in contrapposizione con l’attuale, orribile, destra bushiana. Zucconi filoreaganiano fa molto ridere, in effetti. Mai quanto l’Unità, che ai tempi di Reagan stava in curva sud con l’Urss. Siegmund Ginzberg ("Perché Reagan non è Bush") ha fatto un ritratto di Reagan che dimostra, involontariamente, perché Bush al contrario sia il suo unico erede. Reagan, scrive, "al momento giusto seppe anche licenziare i suoi Rumsfeld e Cheney e dare ascolto ai suoi Powell". E’ vero il contrario, come dimostra il no a Gorbaciov ad Helsinki raccontato qui a fianco da Richard Perle. Il Dipartimento di Stato, poi, si era opposto a un paio di frasi minacciose contenute in un discorso del 1987 che il presidente avrebbe dovuto pronunciare a Berlino. Reagan non ascoltò i riformisti di allora e, da rivoluzionario liberale, disse: "Mr. Gorbaciov apra questo cancello! Butti giù questo muro".

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