Boston. Robert Shrum, detto Bob, è il Karl Rove di John Kerry, lo stratega elettorale che domina l’imponente staff del candidato presidente, guida la macchina di propaganda del partito e decide la linea, il messaggio, gli spot e qualsiasi altra cosa passi per la mente, e soprattutto per la bocca, di Kerry. Sembra un personaggio della serie televisiva "West Wing", ma in realtà è uno vero, un idealista liberal, un populista di sinistra, sessantunenne, calvo, sovrappeso, sciatto-chic nel vestire e con una vaga somiglianza con l’attore Jack Nicholson.
Shrum è il protagonista nascosto della convention di Boston, i magazine americani a cominciare da New Republic e Vanity Fair raccontano la sua storia, ed è evidente perché. Ogni campagna elettorale presidenziale può essere ricordata dallo stratega che l’ha condotta alla vittoria: Karl Rove, appunto per Bush junior, James Carville per il primo Clinton e Dick Morris per il secondo, Lee Atwater per Bush padre, Michael Deaver per Ronald Reagan e Pat Caldwell per Jimmy Carter. Se Kerry riuscisse a vincere, Shrum sarebbe il nuovo genio. I due si sono incontrati professionalmente nel 1996, quando Kerry sembrava prossimo alla sconfitta contro lo sfidante William Weld per il seggio di senatore di Boston. Shrum salvò Kerry, e da allora Kerry si fida di lui. Eppure i due quest’anno non hanno cominciato insieme. Shrum era il capo della strategia di John Edwards, poi quando capì che Edwards non ce l’avrebbe fatta passò con Kerry. Ma lì non era il capo. A poco a poco, mentre cresceva la stella di Howard Dean, Shrum è riuscito a scalzare quegli advisor che consigliavano Kerry di attaccare frontalmente l’ex governatore del Vermont. Shrum gli spiegò che avrebbe fatto bene a fare il contrario, a restare "positivo". Kerry si convinse e fu la chiave della vittoria nelle primarie in Iowa. Ora Shrum non ha più concorrenti nella war room di Kerry, nonostante il candidato sia così preoccupato di passare come una marionetta nelle sue mani da avergli chiesto di non apparire pubblicamente. Shrum è una potenza. Tredici dei 48 senatori democratici sono suoi clienti, a Washington tutti trovano irresistibile la sua arte di scrivere discorsi efficaci e lirici. Il suo capolavoro è lo speech che scrisse per Ted Kennedy al congresso del 1980, quello che incoronò Jimmy Carter. Kennedy aveva perso le primarie ma concesse la vittoria con un discorso che lo fece passare per il vincitore morale: "Il lavoro va avanti, la causa continua, la speranza è ancora viva e il sogno non morirà mai", recitava il passaggio più noto di quel discorso. Da allora ogni politico democratico di Washington chiede ai suoi: "I need a Shroom", ho bisogno di un discorso come quelli scritti da Shrum.
Non si capisce bene quale sia il suo appeal, se non quello che sembra sempre il più informato, il più vicino ai circoli che contano. Forse, più semplicemente, è la vanagloria dei politici a renderlo così irresistibile, qualunque uomo pubblico infatti avverte il bisogno di essere poetico quando parla, piuttosto che un noioso comiziante. Già, perché l’altra caratteristica di Shrum è quella di essere un perdente, nessuno ha mai perso tante campagne elettorali presidenziali come lui. Eppure è sempre in pista, come e più di prima. I suoi grandi colleghi, dopo aver guidato una campagna elettorale presidenziale o si ritirano, in caso di sconfitta, oppure in caso di vittoria passano a più lucrose consulenze. Shrum è diverso. E’ un politico, prima di tutto. Crede in quello che fa fare ai suoi clienti, vorrebbe farle lui quelle cose, in prima persona, se non fosse così timido e insicuro delle proprie capacità al punto da essere costretto a nasconderle dietro la faccia di un cliente a proprio agio con le telecamere. Shrum ha aiutato a vincere molti senatori, molti deputati e una manciata di governatori, ma quando c’è di mezzo la Casa Bianca è un disastro. Nel 1972 scrisse il discorso di accettazione della candidatura di George McGovern, e McGovern perse. Nel 1988 non è riuscito a far ottenere la nomination a Dick Gephardt, nel 1992 ci ha ritentato, fallendo, con il senatore Bob Kerrey. Poi ha guidato la campagna di Al Gore ed è andata come andata, cioè malissimo. Gore era il numero due del presidente che aveva dato agli americani otto anni di prosperità, pace e benessere, ma si presentò agli elettori non come il continuatore dell’esperienza clintoniana piuttosto come il candidato del "popolo contro i potenti", slogan infausto ideato proprio da Shrum e abbastanza ridicolo in bocca all’aristocratico rampollo di una famiglia di senatori del Tennessee. A questo si aggiunga che l’unico presidente democratico degli ultimi venticinque anni, cioè Bill Clinton, non è stato suo cliente. Anzi è stato un suo avversario.
Nel 1997 Shrum scrisse a Gephardt un discorso violentissimo contro la prevedibile candidatura di Gore nel 2000 basato sull’inconsistenza dell’eredità clintoniana. Gephardt non lo pronunciò. Ma la storia fece il giro di Washington e Clinton fu costretto a chiedere a Ted Kennedy una difesa, il quale si rivolse sempre a Shrum per il discorso. Per cui capitò che sia la difesa sia l’attacco al clintonismo furono firmati dalla stessa persona. Pochi anni prima, nel 1992, il senatore Bob Kerrey, consigliato da Shrum, aveva attaccato così duramente Clinton che il presidente fu costretto ad assumere Shrum per la stesura del discorso sullo Stato dell’Unione. Meglio averlo dalla propria parte, uno come Shrum, che come avversario. E’ un populista convinto che oggi però non vuole fare lo stesso errore di quattro anni fa. Quella strategia è perdente, e lo sa. Il suo principale difetto, scrive New Republic, dunque non è l’inflessibilità ideologica, piuttosto l’essere troppo dipendente dai focus group e dai sondaggi. Inseguendo le opinioni della gente invece che provare a forgiarle, Shrum non riesce a creare uno slogan, un messaggio, una visione che faccia sognare gli elettori dei suoi clienti. Forse è più un tattico che uno stratega, ma il suo ritratto spiega meglio di qualsiasi altra cosa perché Kerry non scalda i cuori.
28 Luglio 2004