E’ una "istituzione nazionale", scrisse una volta il Chicago Tribune di William F. Buckley, detto Bill, il leggendario fondatore della National Review e uno dei più prestigiosi analisti politici della destra americana. A 79 anni Buckley ha deciso di rinunciare al controllo della proprietà del settimanale di opinioni e di pensiero politico che fondò 49 anni fa, e di donare le sue quote a un board fiduciario composto dai suoi più stretti collaboratori. Un passaggio dei poteri che per la destra intellettuale americana è importante quanto quello siglato lunedì a Baghdad. Non c’è nessun intrigo, ha detto Buckley con il suo solito stile cinico e raffinato, "la questione ha a che fare con la mia mortalità". Buckley, alla cui biografia sta lavorando Sam Tanenhaus, cioè l’attuale direttore dell’inserto libri del New York Times, ha fondato la National Review nel novembre 1955 e l’ha diretta fino al 5 ottobre del 1990, rifiutando nel frattempo anche una candidatura a governatore dello Stato di New York.
La sua creatura, National Review, ha sdoganato nel mondo della cultura la destra conservatrice e repubblicana. Per anni è stata l’unico luogo di destra dove circolasse pensiero politico e battaglia culturale. "National Review è fuori luogo", scrisse Buckley nell’editoriale di presentazione della rivista datato 19 novembre 1955, nel senso che fin dall’inizio la contrappose al mainstream del New York Times.
Il politicamente corretto e il radical chic non c’erano ancora, ma Bill Buckley fu il primo a organizzare una risposta culturale alla classe intellettuale che aveva abbandonato il conservatorismo per inseguire le progressive sorti del socialismo e dell’antagonismo politico. "La National Review si mette di traverso alla storia e le urla di fermarsi, in un momento in cui nessuno è portato a farlo o non ha la pazienza necessaria con quelli che vorrebbero farlo", è questa la sintesi, codificata fin dal primo editoriale, dell’approccio della National Review. Su quelle pagine, quando Ronald Reagan era ancora iscritto al partito Democratico, cominciarono ad elaborare e a discutere le idee liberiste e fiscali che in seguito divennero il marchio di fabbrica di Reagan.
La National Review oggi è la rivista delle giovani leve dei conservatoroni vecchio stampo, contro l’aborto, contro le misure liberali sull’immigrazione, contro la politica della spesa di Bush che, secondo la rivista, è così terribilmente vicina alle ricette di spesa dei liberal. Il settimanale ha appoggiato l’invasione dell’Iraq, sebbene un anno dopo abbia cominciato a nutrire seri dubbi sulla saggezza di quella scelta: "La grande visione di un medio oriente libero e democratico andrebbe ridimensionata", si leggeva in un editoriale di un paio di mesi fa. Lo stesso Buckley dice che se prima della guerra avesse immaginato in che situazione si sarebbe trovata l’America un anno dopo l’invasione, certamente si sarebbe opposto all’intervento.
In realtà la National Review non ha mai dato grande importanza all’idealismo democratico dei neocon, nonostante Buckley nel 1971 sia stato il primo intellettuale di destra a capire che nella sinistra liberal stava succedendo quello smottamento che poi portò all’uscita dei neoconservatori dalla galassia liberal. I neocon, allora riuniti intorno alla rivista Commentary, stavano ancora a sinistra e lottavano contro la deriva potenzialmente antiamericana verso cui tendeva il liberalismo Usa. Addirittura non era stata ancora coniata la parola "neocon", che è del 1973. Eppure due anni prima, Buckley firmò un editoriale dal titolo "C’mon in, the water is fine", venite, l’acqua è buona, che voleva essere una rassicurazione ai futuri neocon su quanto sarebbero stati bene accolti nel mondo misterioso dei conservatori. Era ancora troppo presto, ma se negli anni successivi i neocon trasmigrarono a destra un ruolo lo ebbe Buckley.
Il dialogo con i neocon, pur nella diversità, resiste ancora, specie sul sito Internet che ospita una delle più sofisticate riviste on line della rete. Ogni giorno su National Review Online scrivono Michael Ledeen, Victor Davis Hanson, Michael Rubin, David Frum, Michael Novak e tanti altri dell’arcipelago neo, paleo, social conservatore. Spesso le idee di Buckley e dei suoi sono "antimoderne", ma se la destra americana ha una cultura, il merito è del neopensionato William F. Buckley.
1 Luglio 2004