Boston. Dopo Bill e Hill, i coniugi Clinton che sul palco della convention democratica si sono abbracciati ma non baciati a differenza di Al e Tipper Gore e di Jimmy e Rosalynn Carter, ieri è stato il giorno di Teresa Heinz, chiamata T da suo marito John Kerry, il candidato che si mostrerà ai suoi delegati soltanto domani sera. E assieme a Teresa, una che parla chiaro e che non le manda mai a dire tanto da essere un pericolo per la misuratissima e controllatissima campagna elettorale di Kerry, ieri i riflettori del prime time televisivo hanno illuminato la star nascente del partito, l’americano-keniano Barack Obama che ha presentato la Piattaforma di governo. Con loro anche il potente senatore Tom Daschle, che è parso più impegnato a rieleggere se stesso in South Dakota che Kerry alla Casa Bianca, Ron Reagan e la battaglia sulla libertà di ricerca sulle cellule staminali, e infine Ted Kennedy, il padrone di casa.
La squadra di Kerry ieri ha cercato di riprendersi la ribalta del partito dopo un primo giorno in cui i democratici sono sembrati ancora il partito privato dei Clinton, non soltanto per la straordinaria retorica da predicatore del sud di Bill né per la serietà o la compostezza di Hillary, ma anche perché chi controlla la macchina dei delegati è il clintoniano Terry McAuliffe, mentre uno dei più presenti sul palco è stato l’altro clintoniano doc, Bill Richardson.
Teresa Heinz Kerry e Ted Kennedy, dunque. La moglie e il mentore di John Kerry, uniti nella stessa causa tra gli applausi del pubblico del Fleet Center. Eppure ieri mattina il Boston Herald ha svelato come l’amicizia tra i due sia cosa recente. Nel 1975, quando non conosceva Kerry ed era sposata con il senatore repubblicano John Heinz, Teresa disse che la politica dei democratici era "putrida" e che non credeva alle cose che il senatore Ted Kennedy diceva, al punto che definì il fratello di JFK "un perfetto bastardo". Il commento si riferiva alla vita privata di Kennedy e all’ipocrisia di mantenere in vita il matrimonio con sua moglie Joan, oggi ex, soltanto "per interessi politici" e per non perdere "il voto dei cattolici" di Boston.
Le scuse mancate e i toni moderati
T e T, Teresa e Ted, ieri hanno minimizzato e poi fatto sapere che si tratta di un commento di trent’anni fa, che Teresa l’anno scorso si è scusata, che ora sono molto amici, che si vedono spesso, che molta acqua è passata sotto i ponti, che bla-bla-bla. Ieri mattina, tra l’altro, Teresa è stata l’ospite d’onore del pranzo al museo delle Belle arti offerto dall’attuale moglie del senatore Kennedy, Victoria Reggie Kennedy.
Gli strateghi sia democratici sia repubblicani si chiedono se il fattore T, cioè la franchezza e la scompostezza con cui si esprime la moglie del candidato, possa alla lunga essere un vantaggio per Kerry, il quale definisce sua moglie "la mia arma segreta", oppure un danno viste le gaffe che la signora continua a fare. L’ultima è quella di domenica sera, quando Teresa, mostrando un dito, ha detto a un giornalista indisponente di "shove it", di "ficcarselo". I democratici, e i delegati ieri sera lo hanno dimostrato, sembrano entusiasti dei suoi comportamenti apolitici, ma c’è chi crede che il parlare chiaro di Teresa, la quale ieri mattina alla Nbc ha detto di non ritrattare la battuta e di essersi soltanto difesa, rischi di compromettere la nuova linea positiva e non astiosa che il partito di Kerry sta cercando di darsi con questa convention dai toni moderati. Il messaggio politico potrebbe svanire ma quel "ficcati questo" è ormai repertorio imperdibile per i comici televisivi. Jay Leno, lunedì sera, ha detto che "John Kerry ha deciso lo slogan del nuovo partito: Love It or Shove It", "o lo ami o te lo ficchi". Gli elettori non scelgono un presidente a seconda di chi ha sposato, ma certo la miliardaria Teresa continuerà a sollevare interesse da qui a novembre, e ancora di più se Kerry riuscisse a battere Bush. Ci ha pensato il senatore dello Stato dell’Illinois Obama, candidato al Senato di Washington, a far tornare la politica al centro del dibattito. E’ stato scelto per il keynote speech, la presentazione del programma, perché è giovane, 42 anni, perché è brillante e perché se dovesse essere eletto a Washington sarebbe l’unico senatore nero e il terzo nella storia del Senato. E’ intervenuto anche Howard Dean, l’ex beniamino dei media e soltanto dei media, poi sonoramente battuto da Kerry. Una lezione che Kerry, in questi giorni di entusiasmo intorno alla sua candidatura, sa di dover tenere bene in mente.
(continua da pagina uno) John Kerry è il nuovo candidato favorito dai media, il nuovo beniamino, secondo soltanto a John Edwards, ma non tutti i sondaggi confermano questa tesi. Secondo un’indagine del Washington Post e della Abc, la maggioranza degli elettori americani sostiene di non conoscere ancora le posizioni di Kerry sui più importanti temi di campagna presidenziale e si aspetta che il candidato fornisca i dettagli, i piani e le sue ricette per risanare l’economia, sconfiggere il terrorismo, affrontare l’Iraq. In meno di un mese Kerry ha perso punti rispetto a Bush su ogni singolo argomento importante di campagna elettorale, mentre una crescente proporzione di elettori, continua il Washington Post, dice che è Bush e non Kerry il candidato che condivide più da vicino i loro valori. Il team Kerry confida che la convention riesca a ribaltare quest’idea. I primi due giorni congressuali sembrano dare loro ragione. I toni sono cauti e fortemente patriottici, la guerra è citata di rado, l’Iraq non è mai definito un "pantano" né un "disastro", il sostegno alle truppe non manca mai ed è stata organizzata anche una toccante cerimonia in ricordo delle vittime dell’11/9.
Quasi non sembra una convention democratica, ha commentato Andrew Sullivan, il giornalista conservatore che con ogni probabilità questa volta voterà "il conservatore Kerry". A Sullivan è sembrata una tipica convention repubblicana, e non soltanto per la scelta degli oratori, dei temi, per l’enfasi sulla politica estera e per l’esaltazione dello spirito militare. C’era anche altro a suffragare questa tesi: l’apertura e la chiusura di seduta con le benedizioni religiose, per esempio. Ma anche una scenografia più curata del solito che ricorda più quella delle cerimonie degli Oscar che di un’assise di partito.
Non sono mancati i cavalli di battaglia democratici, le politiche sul lavoro e la riforma dell’assistenza sanitaria, ma è la parola "forza" la più ricorrente sul palco, è lo slogan "un’America più forte" quello più evidente. Ieri ha parlato Dean e stasera parlerà l’iperpacifista Dennis Kucinich, ma sul palco non si avverte isteria anti guerra in Iraq. Ce n’è molta di più tra gli spalti, nella chiacchiera tra i delegati, nelle spillette e negli adesivi con cui i militanti decorano giacche e borse. L’odio per Bush è rimasto lì. Michael Moore è rimasto in platea. Lunedì sera, al contrario, Kerry ha affidato al brillante deputato del New Jersey Robert Menendez il compito di ricordare, in inglese e spagnolo, come la sua Amministrazione "non esiterà a usare la forza militare americana se ci sarà un pericolo imminente, che non ondeggerà di fronte alla necessità di difendere l’America, gli amici e gli interessi americani". Queste parole non hanno ricevuto grandi applausi, anzi si avvertiva un certo imbarazzo al settimo piano del Fleet Center, il settore che ospita i militanti, la base. Ma Kerry vuole dimostrare di non essere un pappamolla liberal e in questi due primi giorni ci è riuscito.