Camillo di Christian RoccaBand of Brothers o baby killers?

Milano. Fate l’amore e, soprattutto, fate la guerra. Lo slogan pacifista degli anni Settanta va adeguato ai nuovi tempi della politica americana, dove il fronte liberal deve provare di essere più guerriero di Bush e più pronto all’azione militare, se il 2 novembre vuole sconfiggere l’avversario. Così capita che il candidato liberal, John Kerry, sia costretto a presentarsi sul palco della convention di Boston con il saluto militare sulla fronte e un bellicoso "John Kerry, a rapporto", nonostante abbia dedicato la sua vita pubblica alle ragioni del pacifismo, prima come portavoce dei Veterani contro la guerra in Vietnam, poi con audizioni giurate nelle quali accusava i suoi commilitoni, la sua band of brothers, di tutti i più atroci crimini di guerra possibili. Una carriera, infine, consolidata sui banchi del Senato da oppositore di tutte le iniziative militari reaganiane e finanche della Prima guerra del Golfo.

Il paradosso per Kerry e per la stampa liberal americana è che il cosiddetto reazionario, estremista, semifascista e guerrafondaio George Bush, da imboscato del Vietnam, al confronto col tenente-Kerry-a-rapporto sembra un personaggio di Hair, il musical diventato un mito per pacifisti e rivoluzionari di tutto il mondo. Kerry, invece, coccolato dalla sinistra buonista, lotta come un leone, e la stampa con lui, per spiegare che in Vietnam ha combattuto come neanche Robert Duvall in Apocalypse Now. Manca poco e lo vedremo, come il colonnello Bill Kilgore nel film di Francis Ford Coppola, raccontare che di buona mattina l’odore del napalm era una meraviglia. Dice Christopher Hitchens, giornalista di Vanity Fair e intellettuale di sinistra, che Kerry è riuscito nell’incredibile impresa che non era riuscita neppure a Richard Nixon e Ronald Reagan, cioè quella di rivalutare l’orrore del Vietnam come fosse stata "una causa nobile".
Bush ai tempi s’era dato come uno di quei ragazzotti di Hair che bruciava la cartolina di leva a Central Park. Riuscì a farsi mandare in Alabama, con la Guardia nazionale, invece che in ‘Nam con i Berretti verdi. I democratici all’inizio dell’anno hanno impostato la campagna elettorale proprio su questo, su un presidente che aveva risposto alla chiamata dell’Età dell’Acquario piuttosto che alla Patria. Tattica sempre perdente, peraltro, come dimostra il successo dell’imboscato Bill Clinton contro i due grandi eroi di guerra George Bush senior e Bob Dole.
Il presidente del comitato del partito di Kerry, il potente Terry McAuliffe, arrivò ad accusare esplicitamente Bush di essere stato "perlomeno un Awol", che sta per Absent without leave, assente senza permesso, un passo prima della diserzione, cioè disse agli americani che il loro presidente non si era neanche presentato al servizio in Alabama. Lo stesso Kerry, l’8 febbraio del 2004, andò giù duro sul servizio militare di Bush, e lo fece direttamente: "Qui la questione è se lui era presente e attivo in servizio in Alabama nei momenti in cui avrebbe dovuto esserci".

Le accuse del 1971 ai commilitoni
Perché Kerry si sia cacciato in questo guaio è difficile da comprendere, certo non è vittima degli "sporchi trucchi" dei repubblicani, come la solita stampa liberal all’amatriciana ancora ieri scriveva in prima pagina. In quel guaio s’è cacciato lui stesso. L’altro ieri, al New York Times, un esponente del partito democratico, che ha chiesto di non essere citato per nome, ha ammesso che la mossa del candidato è stata un errore, perché "se ti candidi principalmente sulla base della tua biografia e sei costretto a parare i continui attacchi volti a indebolire la credibilità della tua biografia, be’ allora sei nei guai".
Gary Schmitt, direttore del Project for a New American Century, centro studi neoconservatore, prova a dare al Foglio una spiegazione: "La speranza di Kerry è che la gente voti contro Bush per i problemi all’estero e per la crisi economica sul fronte interno. L’idea, di per sé non irragionevole, è che la maggior parte delle elezioni riguardanti un presidente uscente siano un referendum su quanto fatto al governo, per riconfermarlo oppure per cacciarlo. Secondo questa impostazione, tutto quello che Kerry doveva fare era di mostrarsi come un’alternativa ragionevole a Bush. Kerry ­ continua Schmitt ­ ha progettato la sua campagna per mostrarsi più moderato rispetto alla sua storia, ecco perché ha enfatizzato gli errori di Bush nell’applicazione della politica contro Saddam, piuttosto che criticare la scelta di andare in Iraq. Ecco perché ha messo l’accento sul suo servizio militare in Vietnam, piuttosto che sulle sue attività post Vietnam". Kerry era convinto che l’essere stato un eroe di guerra e poi anche uno dei capi del movimento pacifista lo avrebbe avvantaggiato, invece s’è impigliato nella palese contraddizione di presentarsi come la bandiera di una guerra che lui stesso definiva disonorevole.
"Una volta che Kerry ha fatto della sua partecipazione in Vietnam la misura del suo personaggio ­ ha scritto ieri sul Washington Post, David Ignatius ­ era inevitabile che i supporter di Bush avrebbero cercato di contestare il suo curriculum". Tanto più che il 22 aprile 1971, in una testimonianza al Senato, Kerry ha raccontato come i suoi compagni d’armi in Vietnam si fossero macchiati di crimini come stupri, tagli di orecchie e di teste, shock elettrici sui genitali, assassinii per gioco e, ancora, di aver sparato a caso sulla folla, di aver fatto saltare in aria persone inermi, di aver razziato i villaggi alla maniera di Genghis Khan e di aver avvelenato il cibo per affamare i vietnamiti. In seguito si è scoperto che la gran parte di quelle accuse era falsa. Kerry lo ha riconosciuto a mezza bocca, e non s’è mai scusato con i suoi commilitoni, i quali in patria venivano accusati, anche sulla base della testimonianza di Kerry, di essere dei baby killers, assassini di bambini vietnamiti. "Non erano incidenti isolati ­ disse Kerry quella mattina al Senato ­ ma crimini commessi quotidianamente con la piena consapevolezza degli ufficiali di tutti i livelli di comando". Nel corso della grande manifestazione pacifista che seguì, fece il gran gesto di spogliarsi delle onorificenze guadagnate sul Mekong, ma soltanto il gesto perché poi le recuperò, le conservò con cura e ora sono, appunto, il suo cavallo di battaglia elettorale.
Così, con l’aiuto di finanziatori repubblicani, "i Veterani per la verità" hanno cominciato la campagna di spot televisivi che contesta l’eroismo del candidato in Vietnam. "Kerry ­ continua Schmitt ­ ora ha il problema di riportare l’attenzione sul confronto con Bush, ritornare a parlare del presidente invece che di se stesso, vedremo se funzionerà". Ieri ha cominciato Howard Dean ad accusare Bush di aver violato la legge sui finanziamenti elettorali per aver coordinato con i Veterani anti Kerry la campagna di spot. Poi è stato lo stesso Kerry, a New York, a dire che "Bush e i suoi alleati stanno conducendo una campagna di paura & calunnia soltanto perché non possono parlare di lavoro, di assistenza sanitaria, di alleanze internazionali, di fonti energetiche, delle cose che davvero interessano gli americani".

Soros, il finanziatore esterno dei Dems
Questo affidarsi a gruppi terzi per fare campagna elettorale però è un trucchetto previsto dalla legge, dal comma 527 del codice che regola i finanziamenti delle campagne politiche, ed è stato usato prevalentemente dai democratici, tanto che Kerry, fin qui, ha potuto godere di spot per 62 milioni di dollari commissionati da gruppi separati dalla sua campagna ma finanziati da miliardari vicini al partito. George Soros, per esempio, ha sganciato 12 milioni e mezzo di dollari ai "gruppi 527" anti Bush, il più famoso dei quali è MoveOn.org, il sito che ha paragonato Bush a Hitler.
Il presidente è da sempre contrario a questo sotterfugio elettorale, e l’altro ieri lo ha ribadito (ovviamente senza scusarsi, al contrario di quanto ha scritto sulla solita Repubblica Vittorio Zucconi, secondo il quale, evidentemente, Bush avrebbe confessato di essere il mandante dell’attacco dei Veterani). Gli editorialisti indipendenti mettono comunque in guardia lo stratega di Bush, Karl Rove: è vero, sei un genio, sta funzionando, ma alla lunga, caro Rove, la gente potrebbe anche chiedersi se ti è rimasto un briciolo di pudore.

La bugia sulla missione in Cambogia
Ci si può divertire o no a ricostruire con precisione che cosa successe nelle tre settimane in cui Kerry si guadagnò le onorificenze di guerra oppure se le ferite di Kerry sanguinarono o no (in fondo ricorda l’appassionante dibattito sullo spinello di Clinton inalato, ma non aspirato). Il Washington Post, domenica, però lo ha fatto seriamente e ha scoperto che entrambi i fronti, gli amici di Kerry da una parte e i testimoni oculari anti Kerry dall’altra, non hanno detto la verità al cento per cento. C’è la parola degli uni contro la parola degli altri, anche se la versione di Kerry ha l’ufficialità dei rapporti della Marina, alcuni dei quali però, si crede, scritti dallo stesso Kerry. I suoi avversari invece non hanno fornito prove chiare della macchinazione. La differenza non è sulle sfumature. Per gli uni Kerry è stato un eroe, per gli altri un codardo e assassino di un ragazzino undicenne. Entrambi i fronti non hanno messo a disposizione degli investigatori i diari di bordo né tutti i documenti ufficiali. In assenza di prove vale, dunque, la versione ufficiale. Fin qui, però, è certo che una delle cose raccontate da Kerry, cioè la missione clandestina in Cambogia nella notte di Natale, non c’è mai stata. Piccola o grande che sia la bugia, nessuna persona sana di mente può davvero pensare che Kerry sia stato in qualche modo un criminale di guerra. Forse solo il Kerry della testimonianza al Senato del 1971 avrebbe potuto pensarlo.

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