Camillo di Christian RoccaIl caso Missouri

Milano. Alla fine John Kerry potrebbe maledire il suo Stato, il Massachusetts, la culla del liberalismo americano, se il 2 novembre dovesse perdere le elezioni. Di mezzo c’è la questione del matrimonio gay, una serie di referendum che si terranno lo stesso giorno del voto presidenziale e l’intuizione di quel genio di Karl Rove, lo stratega elettorale che per i nemici del presidente è il cervello di George W. Bush.

All’inizio dell’anno una corte dello Stato di residenza di Kerry legalizzò di fatto il matrimonio tra persone dello stesso sesso, giudicando il divieto di sposarsi lesivo dei diritti costituzionali degli omosessuali. Da quel momento negli Stati Uniti si è scatenato un acceso dibattito sul significato e sulla salvaguardia dell’istituto matrimoniale, che è culminato nella celebrazione di migliaia di matrimoni gay a San Francisco e nella presentazione di un emendamento alla Costituzione federale che vuole, una volta per tutte, definire il matrimonio come l’unione tra un uomo e una donna.
Il tema non è nuovo. Già ai tempi di Bill Clinton, e con il suo consenso, fu approvata una "legge in difesa del matrimonio" che prevedeva la stessa cosa. Quella legge ottenne soltanto 14 voti contrari, e uno fu di John Kerry. Sempre in quegli anni, 37 Stati dell’Unione approvarono leggi locali analoghe, ma è stata sufficiente una sola corte in Massachusetts per sovvertire le norme anti matrimonio gay e per scatenare di conseguenza una reazione a catena in molti altri Stati. I repubblicani, in larga maggioranza, si sono adoperati per bloccare l’ondata pro gay presentando l’emendamento alla Costituzione federale, che però il Senato recentemente ha bocciato. I democratici, invece, sono divisi.
Bush sostiene con impegno la proposta di modifica costituzionale, mentre Kerry ha cambiato idea rispetto al voto dei tempi clintoniani e ha trovato, come spesso gli capita, una soluzione a metà strada: è contrario all’emendamento che vieta il matrimonio gay ma è anche contrario al matrimonio gay. Secondo Kerry non deve essere il governo federale a decidere, piuttosto il matrimonio è una materia di competenza dei singoli Stati. Anche Dick Cheney, influente vice di Bush e padre di una attivista del movimento delle lesbiche, aveva la stessa posizione di Kerry ma improvvisamente, ora che Rove ha delineato la sua strategia, si è rimesso alle decisioni del presidente.
L’analisi di Rove è la seguente: l’America è troppo radicalizzata e divisa a metà tra repubblicani e democratici perché ciascuno dei due schieramenti possa sperare di conquistare consensi nell’altro fronte. Bush, quindi, non deve cercare voti al centro, al contrario dovrà galvanizzare la propria base, entusiasmarla, mobilitarla e convincerla che il 2 novembre in gioco non ci sono soltanto la presidenza o qualche seggio al Senato, ma gli stessi valori su cui si fonda la società americana. Sostiene Rove che in un paese dove la gente non va a votare in massa, mobilitare i propri possibili elettori è decisivo. I kerrysti possono contare sull’odio anti Bush dei liberal, i bushiani puntano invece a fare il pieno dei voti delle persone di fede. La chiave per riuscirci è il divieto delle nozze tra omosessuali.

Il 2 novembre si vota anche in 11 Stati
Bush ha un alleato indiretto nella "Coalizione in difesa del matrimonio" che ha promosso una serie di referendum per proteggere l’idea tradizionale dell’istituto familiare. Qualche giorno fa si è votato in Missouri e il risultato ora fa venire i brividi ai democratici. Il referendum è stato accorpato alle elezioni primarie per scegliere i candidati democratici per la Camera e per il Senato locali. I sondaggi prevedevano una vittoria del fronte anti matrimonio gay intorno al 58 per cento, nonostante la maggior parte dei votanti fosse democratica. Il risultato è stato ancora più clamoroso: la maggioranza ha superato il 71 per cento. L’aspetto più eclatante è però un altro: alle urne è andato il 41 per cento degli elettori, un record senza precedenti visto che in elezioni simili l’affluenza non aveva mai superato il 25 per cento. Il risultato non è stato prodotto dai potenti mezzi della macchina elettorale repubblicana, tutt’altro. Il fronte favorevole alle nozze gay ha investito oltre 450 mila dollari, mentre la campagna dei vincitori è costata l’inezia di 19 mila dollari. La gente è andata a votare in massa grazie al tam tam nelle chiese, alle omelie e alla mobilitazione delle associazioni religiose. "Abbiamo pregato", hanno detto gli organizzatori.
Ma non è solo il risultato del Missouri la brutta notizia per Kerry, piuttosto è la spia di quanto potrebbe accadere il 2 novembre se passasse la strategia referendaria di Rove. Nello stesso giorno delle elezioni presidenziali, infatti, si dovrebbe votare su un referendum simile in altri 11 Stati. In alcuni casi è già certo, in altri si aspetta ancora la decisione ufficiale. L’Arkansas, il Michigan, l’Oregon e, soprattutto, l’Ohio, sono Stati dove oggi la differenza tra i due candidati è minima, dove basta un niente per assegnare la vittoria all’uno o all’altro. Rove potrebbe aver scovato quel niente.

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