Una nota per il lettore
La scorsa primavera, quando sembrava che in Iraq stesse andando tutto storto, un’epidemia di amnesia ha cominciato a diffondersi per tutto il paese. Intrappolati nelle notizie e nei dettagli con cui venivamo bombardati ventiquattro ore al giorno, sembrava che avessimo perso di vista il contesto sulla base del quale questi dettagli potevano essere valutati e connessi l’uno all’altro. Piccole cose sono diventate enormi, cose importanti sono divenute invisibili e l’isteria si è fatta galoppante. Da allora, naturalmente, e specialmente dopo il trasferimento d’autorità a un governo provvisorio iracheno avvenuto il 30 giugno, la situazione si è fatta più complessa. Ma l’inarrestabile pressione degli eventi, e il continuo attacco sia dei dettagli sia della loro spesso tendenziosa interpretazione, non si è affatto allentata. E’ per questo motivo che, nelle pagine che seguono, ho cercato di tenermi fuori dal battage quotidiano e di ricomporre la storia di ciò che questa nazione ha cercato di realizzare fin dall’11 settembre 2001.
Facendo questo, ho usato diversi miei scritti già pubblicati in passato, e in particolare tre articoli apparsi su questa rivista poco più di due anni fa. In alcuni casi, ho inserito alcuni passaggi di questi articoli in un nuovo contesto, altri passaggi sono stati rivisti e aggiornati.
Per raccontare in modo appropriato questa storia non bastava un semplice resoconto dei fatti avvenuti dall’11 settembre ad oggi. Da un lato, ho dovuto interrompere più volte la narrazione degli eventi per discutere ed eliminare parecchi fraintendimenti, distorsioni e vere e proprie mistificazioni. Inoltre, ho dovuto ampliare la prospettiva per sottolineare che la grande battaglia in cui gli Stati Uniti sono stati coinvolti dopo l’11 settembre può essere compresa soltanto se la concepiamo come la quarta guerra mondiale.
La mia speranza è che raccontare la storia da questa prospettiva e in questo modo servirà a dimostrare che la strada sulla quale ci siamo incamminati dopo l’11 settembre è la sola sicura da seguire. Mentre procediamo su di essa, sorgono inevitabilmente questioni sulla necessità o la giustezza di una determinata scelta; e tali questioni faranno a loro volta sorgere preoccupazioni e persino richieste di un ritiro dal campo di bataglia. Cose analoghe sono avvenute durante la seconda guerra mondiale e ancor più durante la terza guerra mondiale (ossia la guerra fredda); e ora avvengono di nuovo, in particolare in riferimento all’Iraq.
Ma, come cercherò di dimostrare, siamo soltanto nella fasi iniziali di quella che promette di essere una guerra molto lunga, e l’Iraq è soltanto il secondo fronte che si è aperto in questa guerra: la seconda scena, per così dire, del primo atto di una commedia in cinque atti. Nella seconda guerra mondiale, e poi anche nella terza, siamo andati avanti nonostante insofferenze, scoraggiamento e opposizioni per tutto il tempo necessario fino al giorno della vittoria, e questo è esattamente ciò che siamo chiamati a fare oggi nella quarta guerra mondiale. Perché oggi, proprio come durante quei titanici conflitti, dobbiamo combattere contro una forza assolutamente malvagia: l’islamismo radicale e gli Stati che appoggiano, proteggono e finanziano il terrorismo. Questo nuovo nemico ci ha già attaccato sul nostro stesso territorio (cosa che né i nazisti né tantomeno la Russia sovietica erano mai riusciti a fare), e minaccia di colpirci di nuovo, ma questa volta con armi infinitamente più potenti di quelle usate l’11 settembre. Il suo obiettivo non è semplicemente quello di uccidere il maggior numero possibile di americani e di conquistare la nostra terra. Come già i nazisti e i comunisti prima di lui, vuole la distruzione di tutto ciò per cui l’America ritiene giusto combattere. E’ proprio questo, quindi, che (per parafrasare George W. Bush e numerosi suoi predecessori, sia repubblicani che democratici) noi, non meno della "grande generazione" degli anni quaranta e della sua erede spirituale degli anni cinquanta, abbiamo il dovere e l’onore di difendere.
Un fulmine a ciel sereno
L’attentato è avvenuto, metaforicamente ma anche letteralmente, come un fulmine a ciel sereno. Letteralmente, nel senso che gli aeroplani dirottati schiantatisi contro il World Trade Center la mattina dell’11 settembre stavano volando in un cielo di un blu così limpido da sembrare irreale. Quel giorno mi trovavo, come membro della giuria, in un’aula di giustizia a circa settecento metri da quello che è stato poi chiamato Ground Zero. Poche ore dopo lo schianto dei due aeroplani, uscimmo tutti in strada, proprio mentre la seconda torre stava crollando. Questo tremendo spettacolo, come se non fosse già quasi impossibile da credere di per sé, fu reso ancora più incredibile dal colore terso e meraviglioso del cielo. Mi sembrava di essere stato catapultato in uno di quei vecchi film del genere catastrofico girati in technicolor. Ma l’attacco è stato un fulmine a ciel sereno anche in senso metaforico. Circa un anno dopo, nel novembre 2002, sarebbe stata nominata una commissione per svolgere un’inchiesta sui motivi per cui un simile attentato ci abbia potuti cogliere di sorpresa e per verificare se fosse stato possibile evitarlo. Poiché sono cominciate soltanto dopo l’inizio della accesissima campagna elettorale americana, le udienze della commissione sono ben presto degenerate in un tentativo da parte dei democratici di dimostrare che l’amministrazione Bush aveva ricuvuto sufficienti avvertimenti ma che li aveva semplicemente ignorati.
Questo tentativo ha ricevuto un’ulteriore spinta dalla testimonianza di Richard A. Clarke, che era stato il direttore delle operazioni antiterrorismo all’interno del Consiglio di sicurezza nazionale durante la presidenza di Clinton e poi anche di Bush, fino alle sue dimissioni all’indomani dell’11 settembre. Ciò che in pratica ha fatto Clarke (sia alle udienze sia nel suo libro "Against all Enemies") è stato dare la colpa a Bush, il quale, al momento degli attentati, era salito alla Casa Bianca soltanto da otto mesi, ed escludere da ogni accusa Clinton, che aveva passato otto lunghi anni senza fare nulla di significativo per rispondere alla serie di attacchi terroristici contro obiettivi americani in varie parti del mondo.
Il punto che voglio sottolineare non è che Clarke abbia esagerato o addirittura mentito. Il fatto è che l’attentato dell’11 settembre è stato effettivamente improvviso nel senso che nessuno aveva mai preso veramente sul serio una simile possibilità. Persino Clarke ha dovuto ammettere che se anche tutte le sue raccomandazioni fossero state rispettate l’attentato non sarebbe stato in ogni caso prevedibile.
E nel suo rapporto finale, reso noto il 22 luglio di quest’anno, la commissione, pur evidenziando non meno di dieci episodi che si possono considerare come mancate "opportunità operative", ha concluso che queste opportunità non sarebbero comunque servite a impedire l’attacco. O almeno non nell’America di quei giorni: un’America in cui erano state messe le catene alla Cia e all’Fbi; in cui era stato eretto un "muro di separazione" per impedire la comunicazione e la collaborazione tra le forze di polizia e gli agenti della sicurezza nazionale; in cui, infine, i politici e tutta l’opinione pubblica erano ancora incapaci e non disposti a credere che il terrorismo potesse rappresentare un’autentica minaccia.
Contraddicendo in parte sé stessa, la commissione ha detto che "gli attentati dell’11 settembre sonto stati uno shock, ma non avrebbero dovuto essere considerati come una sorpresa". Forse è proprio così; ma non c’è una sola persona, all’interno del governo o al di fuori, che non li abbia considerati una sorpresa. La commissione ha parlato anche di un "fallimento della capacità d’immaginazione". Ancora una volta, può essere che sia così; ma la parola "fallimento" può essere inappropriata in quanto implica che un successo fosse possibile. Un fallimento così completo deve essere considerato inevitabile.
Per il New York Times, tuttavia, il fallimento non era affatto inevitabile. In un editoriale di prima pagina camuffato da "resoconto", questo giornale ha scritto che il rapporto finale della commissione indicava che "un attacco descritto come inimmaginabile era stato in realtà immaginato, varie volte". Ma nessuna delle testimonianze citate dal Times per la sua categorica affermazione prediceva in realtà che al Qaida avrebbe dirottato aerei di linea per farli schiantare sugli edifici di New York e Washington. Per di più, tutte queste testimonianze appartenevano agli anni Novanta.
Ciononostante, il "resoconto" del Times cercava di convincere i suoi lettori che, nell’autunno del 2000, l’Amministrazione Bush (in quel momento non ancora in carica) aveva ricevuto sicuri avvertimenti di un attacco imminente. Per rafforzare quest’impressione, il Times ha citato un briefing fatto a Bush un mese prima dell’11 settembre. Ma il documento in questione era piuttosto vago e, in ogni caso, era soltanto uno dei tanti briefing fatti dall’intelligence, senza alcuna speciale pretesa di credibilità rispetto ad altre informazioni che lo contraddicevano.
Così l’Amministrazione Bush, che era appena stata severamente criticata nelle udienze tenute dal Senate intelligence committee per avere invaso l’Iraq sulla base di sbagliate informazioni di intelligence, veniva ora ulteriormente criticata per non avere agito sulla base di informazioni ancora più vaghe al fine di prevenire gli attentati dell’11 settembre. Questa contraddizione ha suscitato un sarcastico commento di Charles Hill, ex funzionario di governo che era stato un abituale "consumatore" di informazioni d’intelligence: "La raccolta e l’analisi dell’intelligence è un’attività molto imprecisa. Il rifiuto di ammettere questo fatto ha prodotto la davvero ridicola contraddizione del Senate intelligence committee che critica l’Amministrazione Bush per avere agito sulla base di informazioni scadenti, nello stesso momento in cui la commissione di indagine sull’11 settembre la critica per non avere agito sulla base di informazioni dello stesso tipo".
Comunque, il punto che mi preme sottolineare è che nelle recriminazioni su tale questione c’era qualcosa di immorale, per non dire di sacrilego, che ha insudiciato le udienze pubbliche della commissione e alcuni dei rapporti preliminari dello staff. E’ stata perciò allo stesso tempo uno shock e una sorpresa che questo stesso spirito sacrilego sia stato quasi interamente esorcizzato dal rapporto finale. Alla fine la commissione ha concluso che nessun presidente americano poteva essere ritenuto responsabile per l’aggressione subita dagli Stati Uniti l’11 settembre 2001.
Punto e a capo. Infatti, la semplice verità è che la responsabilità tocca esclusivamente ad al Qaida, insieme ai regimi che le hanno dato appoggi e protezione. Inoltre, se è vero che la passività e l’inazione dell’America ha aperto le porte all’11 settembre, è anche vero che né i democratici né i repubblicani (né tantomeno i liberal o i conservatori) possono trarne qualche vantaggio ideologico. La ragione, molto semplicemente, è che le amministrazioni di entrambi i partiti hanno sempre usato praticamente gli stessi metodi per affrontare il terrorismo, a cominciare da Richard Nixon nel 1970, passando attraverso Gerald Ford, Jimmy Carter, Ronald Reagan (sì, pure lui), George H. W. Bush, Bill Clinton, fino a George Bush.
Una "tigre di carta"
La storia ci offre un quadro sconsolante. Dal 1970 al 1975, durante le amministrazioni di Nixon e Ford, parecchi diplomatici americani sono stati uccisi in Sudan e in Libano e molti altri rapiti. I colpevoli erano agenti di una delle tante fazioni dell’Olp. Anche in Israele molti cittadini americani sono stati assassinati dall’Olp, sebbene, fatta eccezione per i missili sparati dal Fronte popolare per la liberazione della Palestina contro la nostra ambasciata e altri edifici americani a Beirut, questi attacchi non fossero direttamente rivolti contro gli Stati Uniti. In ogni caso, non c’è stata alcuna forma di ritorsione militare da parte degli americani.
I nostri diplomatici venivano dunque già da alcuni anni impunemente uccisi dai terroristi musulmani quando, nel 1979, con Carter alla Casa Bianca, alcuni studenti iraniani (con l’avallo dell’ayatollah Khomeini) entrarono nell’ambasciata americana di Teheran e presero 52 ostaggi americani. Per cinque mesi, rimase a tentennare. Alla fine, facendosi coraggio, ha autorizzato un’operazione militare di salvataggio finita nel nulla dopo una serie di clamorosi sbagli che sarebbero stati degni di figurare in un film dei fratelli Marx, se non fosse che erano più umilianti che comici. Dopo 444 giorni, e poche ore dopo l’insediamento di Reagan alla Casa Bianca nel gennaio 1981, gli ostaggi furono finalmente rilasciati dagli iraniani, evidentemente perché temevano che il nuovo e bellicoso presidente potesse effettivamente lanciare un vero colpo militare contro di loro.
Tuttavia, se avessero potuto prevedere come sarebbe andata durante la presidenza Reagan, non sarebbero stati così timorosi. Nell’aprile 1983, Hezbollah (un’organizzazione terrorista islamica appoggiata dall’Iran e dalla Siria) mandò un attentatore suicida a fare esplodere il suo camion di fronte all’ambasciata americana di Beirut. Rimasero uccisi 63 impiegati, tra i quali il direttore della Cia per il Medio Oriente, e altri 120 furono feriti. Ma Reagan non fece nulla.
Sei mesi dopo, nell’ottobre 1983, un altro attentatore suicida appartenente a Hezbollah fece saltare in aria una caserma americana nell’aereoporto di Beirut uccidendo nel sonno 241 marine e ferendone altri 81. Questa volta Reagan approvò un piano di ritorsione, ma diede poi il permesso al suo segretario della difesa Caspar Weinberger di cancellarlo (perché avrebbe potuto danneggiare le nostre relazioni con il mondo arabo, verso il quale Weinberger era sempre stato teneramente sollecito). Poco tempo dopo, il presidente ritirò i soldati dal Libano.
Dopo essere fuggito dal Libano in ottobre, Reagan non fece nulla nemmeno in dicembre, quando fu bombardata l’ambasciata americana in Kuwait. E non fece nulla neppure quando, poco dopo il ritiro degli americani da Beirut, il capo della sezione locale della Cia, William Buckley, fu rapito e poi ucciso da Hezbollah. Buckley era il quarto americano ad essere rapito a Beirut; tra il 1982 e il 1992 molti altri subirono la stessa sorte (anche se non tutti furono uccisi).
A quanto pare, furono proprio questi rapimenti a convincere Reagan (il quale aveva giurato che non avrebbe mai negoziato con i terroristi) a fare un patto segreto con l’Iran che prevedeva la fornitura di armi in cambio di ostaggi. Ma mentre gli iraniani furono pagati profumatamente con quasi 1500 missili anticarro, tutto quello che gli americani ottennero furono tre ostaggi americani (senza parlare del grave scandalo Iran-contra).
Nel settembre 1984, sei mesi dopo l’assassinio di Buckley, un annesso dell’ambasciata americana a Beirut fu colpito da un’altra bomba (la responsabilità fu nuovamente ricondotta a Hezbollah). Reagan ancora una volta non fece nulla. O piuttosto, dopo avere dato luce verde a operazioni segrete di ritorsione delegate ad agenti dei servizi segreti libanesi, vi rinunciò non appena una di queste operazioni (diretta contro il religioso che si pensava essere il capo di Hezbollah) fallì, uccidendo per sbaglio 80 persone.
Ci vollero solo altri due mesi prima di un nuovo attacco di Hezbollah. Nel dicembre 1984, fu dirottato un aereo di linea kuwaitiano, e due passeggeri americani (funzionari della U.S. Agency for international development) furono uccisi. Gli iraniani, che avevano fatto irruzione sull’aereo dopo il suo atterraggio a Teheran, promisero di processare i dirottatori, ma invece gli permisero di lasciare indisturbati il paese. A questo punto, tutto quello che seppe fare l’Amministrazione Reagan fu offrire una ricompensa di 250.000 dollari a chi fornisse informazioni utili all’individuazione e all’arresto dei dirottatori. Ma non si fece avanti nessuno.
Il giugno seguente, i combattenti di Hezbollah dirottarono un altro aereo di linea, questa volta di bandiera americana (Twa volo 847) e lo fecero atterrare a Beirut, dove fu costretto a rimanere per più di due settimane. Durante questi giorni, un ufficiale di marina americano che si trovava a bordo dell’aereo fu ucciso, e il suo corpo fu brutalmente gettato sulla pista. Grazie a questo loro exploit, i dirottatori furono premiati con il rilascio di centinaia di terroristi detenuti in Israele in cambio della liberazione dei passeggeri. Sia gli Stati Uniti che Israele negarono di avere violato la propria politica di non negoziazione con i terroristi, ma, come nel caso dell’affare "armi in cambio di ostaggi", e per le stesse buone ragioni, nessuno gli credette, e si ritenne scontato che Israele avesse agito su pressione da Washington. Successivamente, quattro dirottatori furono catturati, ma soltanto uno fu processato e condannato (peraltro dalla Germania, non dagli Stati Uniti).
Lo stillicidio proseguì. Nell’ottobre 1985, un gruppo guidato dal membro dell’Olp Abu Abbas (con l’appoggio della Libia) prese in ostaggio l’Achille Lauro, una nave da crociera italiana. Un terrorista gettò giù dalla nave un vecchio passeggero americano, Leon Klinghoffer. Quando i terroristi cercarono di fuggire con un aereo, gli Stati Uniti inviarono alcuni caccia per intercettarlo e lo costrinsero ad atterrare. L’assassino di Klinghoffer fu poi catturato e condannato in Italia, ma le autorità italiane lasciarono libero Abu Abbas. Washington (che evidentemente aveva esaurito il suo repertorio di ritorsioni militari) si limitò a protestare per il rilascio di Abu Abbas. Senza ottenere nulla.
Il coinvolgimento della Libia nel sequestro dell’Achille Lauro fu, comunque, l’ultima concessione dell’Amministrazione Reagan al dittatore di quel paese, Muammar Gheddafi. Nel dicembre 1985, in due attentati negli aeroporti di Roma e Vienna rimasero uccise venti persone (tra cui cinque americani); poi, nell’aprile 1986, venne fatta esplodere una bomba in una discoteca di Berlino ovest regolarmente frequentata da soldati americani. I servizi segreti americani attribuirono tutti questi attentati alla Libia: la conseguenza finale fu un attacco aereo americano, nel corso del quale fu colpita una delle residenze di Gheddafi.
Per ritorsione, il terrorista palestinese Abu Nidal uccise tre cittadini americani che lavoravano presso l’università americana di Beirut. Ma Gheddafi rimasto senza dubbio sorpreso e scosso dalla ritorsione americana si eclissò temporaneamente come sponsor del terrorismo. Per quanto ne sappiamo, ci vollero tre anni (fino al dicembre 1988) prima che si decidesse ad organizzare una nuova operazione: l’attentato contro il volo 103 della Pan Am, caduto sopra Lockerbie, in Scozia, nel quale persero la vita 270 persone. Dei due agenti segreti libici processati, soltanto uno è stato condannato (soltanto nel 2001), mentre l’altro è stato rilasciato. Lo stesso Gheddafi non ha dovuto subire altre punizioni dai caccia americani.
Nel gennaio 1989 divenne presidente George H. W. Bush, il quale, in riferimento all’attentato contro il volo 103 della Pan Am, si accontentò di seguire l’approccio al terrorismo già adottato da tutti i suoi predecessori. Durante la sua presidenza, ci sono stati parecchi attentati delle organizzazioni terroristiche islamiche contro gli americani in Turchia, Egitto, Arabia Saudita e Libano. Nessuno di questi è stato sanguinoso quanto i precedenti, e nessuno ha provocato alcuna risposta militare da parte degli Stati Uniti.
Nel gennaio 1993 è salito alla Casa Bianca Bill Clinton. Anche durante i suoi otto anni di presidenza, cittadini americani sono stati feriti o uccisi in Israele e in altri paesi da terroristi che non si rivolgevano direttamente contro gli Stati Uniti. Ma numerosi e spettacolari operazioni terroristiche dirette esplicitamente contro gli Stati Uniti sono avvenute sotto gli occhi di Clinton. Il prima, il 26 febbraio 1993, soltanto 38 giorni dopo il suo insediamento, è stata l’esplosione di una bomba nel garage del World Trade Center a New York. In confronto a quello che è poi avvenuto l’11 settembre 2001, questo lo si può definire un incidente minore, in cui sono rimaste uccise "soltanto" sei persone e oltre mille ferite. I sei terroristi musulmani colpevoli dell’attentato sono stati arrestati, processati e condannati con severe sentenze.
Ma nel seguire l’ormai tradizionale modello di considerare simili attentati come crimini comuni, o come l’opera di gruppi canaglia che agivano in proprio, l’Amministrazione Clinton ha consapevolmente ignorato esperti esterni come Steven Emerson e persino il direttore della Cia, R. James Woolsey, il quale aveva grossi sospetti che dietro i singoli colpevoli ci fosse una rete terroristica islamica con il proprio quartier generale in Sudan. Questa rete, allora niente affatto nota al pubblico, si chiamava al Qaida, e il suo leader era un saudita che in Afghanistan aveva combattuto al nostro fianco contro i sovietici, ma che poi si era rivoltato contro di noi. Il suo nome era Osama bin Laden.
L’episodio successivo si verificò non molto dopo l’attentato al World Trade Center. Nell’aprile 1993, vale a dire meno di due mesi dopo, gli agenti segreti iracheni (come i nostri investigatori hanno dimostrato) cercarono di assassinare l’ex presidente George H. W. Bush, in visita in Kuwait. L’Amministrazione Clinton impiegò altri due mesi per ottenere l’approvazione dell’Onu e della "comunità internazionale" a una ritorsione contro questo proditorio assalto nei confronti degli Stati Uniti. Alla fine, un paio di missili cruise furono lanciati su Baghdad, dove caddero nel mezzo della notte senza provocare vittime su edifici vuoti.
Negli anni immediatamente successivi, i terroristi islamici hanno compiuto numerosi attentati (in Turchia, Pakistan, Arabia Saudita, Libano, Yemen e Israele) non direttamente rivolti contro gli Stati Uniti ma nei quali cittadini americani sono comunque stati uccisi o rapiti. Nel marzo 1995 un camion del consolato statunitense di Karachi, in Pakistan, è rimasto intrappolato in un’imboscata nella quale sono morti due diplomatici americani e un terzo è rimasto ferito. Nel novembre dello stesso anno, sono morti cinque americani per l’esplosione di un’autobomba a Riyadh, in Arabia Saudita, nei pressi di un edificio in cui viveva un gruppo di consiglieri statunitensi.
Tutto questo è stato di gran lunga sorpassato nel giugno 1996 quando un’autobomba ha fatto saltare in aria un altro edificio in cui vivevano militari americani, le Khobar Towers a Dhahran, in Arabia Saudita. Sono stati uccisi 19 nostri soldati e altri 240 americani sono rimasti feriti.
Nel 1993, Clinton era stato così deciso nel considerare l’attentato al World Trade Center come un crimine comune che per un periodo relativamente lungo si rifiutò persino di incontrare il direttore della Cia da lui stesso nominato. Forse sapeva già che, sul terrorismo e sugli Stati che lo appoggiavano, Woolsey gli avrebbe detto cose che Clinton non avrebbe voluto sentire, perché non aveva alcuna intenzione di imbarcarsi in qualche azione militare che queste notizie avrebbero potuto rendere necessaria. E anche questa volta Clinton affidò l’inchiesta alla polizia; ma la persona incaricata, ossia il direttore dell’Fbi Louis Freeh (che nutriva sospetti su un legame con l’Iran) non aveva su Clinton maggiore influenza di quella che aveva avuto in precedenza Woolsey. Ci furono alcuni arresti, e tutto finì nelle corti di giustizia.
Nel giugno 1998 sono state lanciate alcune granate, fortunatamente senza danni, contro l’ambasciata americana a Beirut. Poco tempo dopo, le nostre ambasciate nelle capitali del Kenia (Nairobi) e della Tanzania (Dar es-Salaam) non furono altrettanto fortunate. In un solo giorno (il 7 agosto 1998) contro queste due ambasciate vennero lanciate delle autobombe che hanno provocato oltre 200 morti, dodici dei quali americani. Entrambi gli attentati furono rivendicati da al Qaida.
Con quella che, a ragione o a torto, fu ampiamente interpretata, soprattutto all’estero, come una mossa per distrarre l’attenzione dai suoi problemi legali per lo scandalo Lewinsky, Clinton fece lanciare alcuni missili cruise contro un campo d’addestramento di al Qaida in Afghanistan e contro un edificio in Sudan che ospitava una base di al Qaida. Ma bin Laden riuscì a scamparla; per di più non si riuscì ad accertare se l’edificio bombardato in Sudan fosse davvero un laboratorio per la preparazione di armi chimiche o semplicemente una fabbrica di prodotti farmaceutici.
Questo fiasco (come abbiamo saputo da ex membri della sua amministrazione) tolse a Clinton ogni intenzione di intraprendere altre azioni contro bin Laden, per quanto diverse fonti abbiano rivelato che Clinton autorizzò alcune operazioni segrete di antiterrorismo e parecchie iniziative diplomatiche che hanno portato a un certo numero di arresti in paesi stranieri. Ma, a detta di Dick Morris, il consigliere politico di Clinton in quel periodo: "I settimanali incontri strategici svoltisi alla Casa Bianca per tutto il 1995 e il 1996 furono caratterizzati da un numero sempre maggiore di pressanti consigli al presidente Clinton affinché prendesse iniziative concrete per combattere il terrorismo. I sondaggi davano ragione a questi consigli. Ma Clinton continuò a esitare e rinunciò ad agire, trovando sempre un pretesto per considerare più importanti altre questioni.
Dopo l’uscita di scena di Morris, molte altre cose cominciarono a fermentare dietro le quinte, ma la maggior parte continuò a restare nell’ambito delle parole o di progetti che non portavano a nulla di concreto. In netto contrasto con la lusinghiera immagine che Richard Clarke avrebbe poi dato di Clinton, Woolsey (che, dopo un breve periodo come direttore della Cia, rassegnò le proprie dimissioni in completa frustrazione) ha offerto un devastante resoconto retrospettivo dell’approccio di Clinton:"Fai qualcosa per dimostrare che non te ne infischi. Lancia un paio di missili nel deserto, fagli prendere un po’ di strizza, e arrestane qualcuno. E poi rinvia la palla".
La palla la raccolse bin Laden il 12 ottobre 2000, quando mandò una squadra di attentatori suicidi contro la USS Cole, ancorata per rifornimento in Yemen. I terroristi non riuscirono ad affondare la nave, ma la danneggiarono gravemente, uccidendo 17 marinai americani e ferendone altri 39.
Clarke, e qualche altro analista dei servizi segreti, non ebbe dubbi che il colpevole fosse al Qaida. Ma né il capo della Cia né quello dell’Fbi ritennero che le prove fossero decisive. Di conseguenza gli Stati Uniti non alzarono nemmeno un dito contro bin Laden o il regime talebano in Afghanistan, dove in quel momento bin Laden si nascondeva. Quanto a Clinton, era talmente preso dal suo futile tentativo di ottenere un accordo tra gli israeliani e i palestinesi che tutto quello che riuscì a vedere in questo attacco contro una nave da guerra americana fu un tentativo "di dissuaderci dalla nostra missione per la promozione della pace e della sicurezza in medioriente". I terroristi, proclamò con enfasi, avrebbero "completamente fallito" in questo tentativo.
Non sembrava avere alcuna importanza il fatto che non vi fosse la minima indicazione che bin Laden fosse interessato ai negoziati di Camp David tra israeliani e palestinesi o che la stessa questione palestinese fosse per lui più importante di altre. In ogni caso, fu Clinton a fallire e non bin Laden. I palestinesi, sotto la guida di Yasser Arafat, dopo avere gettato al vento un’offerta straordinariamente generosa fatta dal primo ministro israeliano, Ehud Barak, e entusiasticamente sottoscritta da Clinton, scatenarono una nuova ondata di terrorismo. E bin Laden avrebbe presto ottenuto un successo clamoroso nel suo progetto di colpire ancora gli Stati Uniti.
La semplice audacia dell’azione compiuta da bin Laden l’11 settembre 2001 è stata senza dubbio il frutto del suo disprezzo per la potenza americana. Il nostro continuo rifiuto di usare questa potenza contro di lui e i suoi terroristi (o di usarla con efficacia tutte le volte che ci avevamo provato) rafforzò la sua convinzione che gli Stati Uniti fossero una nazione sulla via del declino, destinata ad essere sconfitta dal risorgere di quella militanza islamica che un tempo aveva conquistato e convertito con la forza della propria spada una larga fetta del mondo.
Secondo la visione di bin Laden, migliaia e addirittura milioni di suoi seguaci e simpatizzanti in tutto il mondo musulmano erano pronti a morire come martiri nel jihad, la guerra santa, contro il "Grande Satana", come ci aveva definiti l’ayatollah Khomeini. Inoltre, noi occidentali, soprattutto in America, avevamo talmente paura di morire che ci mancava persino la volontà di combattere per difendere il nostro degenerato stile di vita.
Bin Laden non ha mai fatto misteri di questo suo giudizio sugli Stati Uniti. In un’intervista rilasciata alla Cnn nel 1997, ha dichiarato: "Il mito della superpotenza è stato distrutto, non solo nella mia mente ma anche in quella di tutti i musulmani, quando l’Unione Sovietica fu sconfitta in Afghanistan". Il fatto che i guerriglieri musulmani in Afghanistan non avrebbero quasi certamente vinto se non fossero stati riforniti di armi dagli Stati Uniti non sembra fare parte della lezione che bin Laden ha tratto dalla sconfitta dell’Urrs. Così, in un’intervista rilasciata un’anno prima, aveva sminuito gli Stati Uniti rispetto all’Unione Sovietica: "Il soldato russo è più coraggioso e tenace del soldato americano"; di conseguenza, "la nostra battaglia contro gli Stati Uniti appare più facile di quella che abbiamo dovuto combattere in Afghanistan".
Facendosi ancora più esplicito, bin Laden bollò gli americani come codardi. Reagan non se l’era forse data a gambe dal Libano dopo l’attentato conto la caserma dei marine nel 1983? E Clinton non aveva forse fatto la stessa cosa dieci anni dopo, non appena alcuni ranger americani erano rimasti uccisi in Somalia, dove erano stati mandati per partecipare ad un’operazione di "peacekeeping"? Bin Laden non si attribuì la responsabilità di questi assassinii, ma, secondo un rapporto del Dipartimento di Stato, al Qaida aveva addestrato i terroristi che avevano teso l’imboscata agli americani (la storia di quanto avvenuto in Somalia fu raccontata dal film di Mark Bowden, "Black Hawk Down", che, a quanto si dice, divenne uno dei film preferiti di Saddam Hussein).
In una terza intervista rilasciata nel 1998, bin Laden ha offerto una spiegazione riassuntiva: "Dopo avere lasciato l’Afghanistan, i combattenti musulmani si recarono in Somalia e si prepararono ad una lunga battaglia, pensando che gli americani fossero come i russi. Rimasero sorpresi dal morale basso dei soldati americani e si resero finalmente conto che il soldato americano era una tigre di carta e che dopo un paio di colpi fuggiva in ritirata".
Calcoli errati
Bin Laden non è stato il primo nemico di un regime democratico ad essere incoraggiato da simili impressioni. Negli anni trenta, Adolf Hitler fu convinto dell’incapacità degli inglesi di riarmarsi per difendersi dalla nuova minaccia, così come dalla loro politica di appeasement nei suoi confronti, che l’Inghilterra fosse sulla via del declino e non sarebbe mai scesa in guerra, nemmeno se avesse continuato ad invadere un paese dopo l’altro.
Lo stesso vale per Joseph Stalin all’indomani della seconda guerra mondiale. Incoraggiato dalla rapida smobilitazione degli Stati Uniti (cosa che ai suoi occhi significava che non eravamo preparati e disposti ad opporci alle sue iniziative con la forza militare), Stalin violò la promessa che aveva fatto a Yalta quando aveva accettato di organizzare libere elezioni nei paesi dell’Europa orientale occupati dalla Russia alla fine della guerra. Al contrario, consolidò il suo dominio su questi paesi, e si rivolse minacciosamente verso la Grecia e la Turchia.
Dopo la morte di Stalin, i suoi successori ripeterono lo stesso gioco tutte le volte che percepivano un indebolimento della determinazione americana. In certi casi si trattò di manovre intese a stabilire un equilibrio di potenza militare favorevole all’Urss. In altri, si trattò di utilizzare come strumento i partiti comunisti locali o altri canali. Ma grazie al declino della potenza americana dopo il ritiro dal Vietnam (un declino riflesso dal diffondersi, alla fine degli anni Settanta, di tendenze isolazioniste e pacifiste, ed espresso in termini concreti da una riduzione delle spese militari), Leonid Breznev non ebbe alcun timore nell’inviare le sue truppe in Afghanistan nel 1979.
Fu lo stesso declino della potenza americana, così stranamente incarnato da Jimmy Carter, che, meno di due mesi prima dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, aveva incoraggiato l’ayatollah Khomeini a prendere in ostaggio cittadini americani. Senza dubbio, molti negarono che l’audace azione di Khomeini avesse alcunché a che fare con la sua convinzione che, con Carter, gli Stati Uniti fossero diventati impotenti. Ma questa tesi non poteva essere sostenuta di fronte al contrasto tra il comportamento mantenuto dal regime khomeinista in occasione dell’attacco alla nostra ambasciata di Teheran e l’aiuto invece offerto ai sovietici quando un gruppo di manifestanti iraniani cercò di fare irruzione nell’ambasciata sovietica subito dopo l’invasione dell’Afghanistan.
I fondamentalisti islamici al potere in Iran odiavano il comunismo e l’Unione Sovietica con la stessa forza con cui odiavano gli Stati Uniti, in particolare dopo l’invasione di un paese musulmano. Di conseguenza, il diverso atteggiamento mantenuto da Khomeini non può essere spiegato da fattori ideologici o politici. La spiegazione sta nella paura delle ritorsioni sovietiche; quanto agli Stati Uniti, ci si aspettava invece che, avendo perso la loro determinazione, avrebbero fatto qualsiasi cosa pur di evitare l’uso della forza.
Lo stesso vale per Saddam Hussein. Nel 1990, durante la presidenza di George Bush padre, Saddam Hussein invase il Kuwait in quello che fu ampiamente, e giustamente, considerato il primo passo di un piano per assumere il controllo dei pozzi petroliferi medio-orientali. Il presidente americano, incoraggiato da Margaret Thatcher, allora primo ministro dell’Inghilterra, dichiarò che l’invasione non sarebbe stata tollerata e mise insieme una coalizione che inviò una forza imponente nella regione. Già questo soltanto avrebbe potuto impaurire Saddam e convincerlo a ritirarsi dal Kuwait, se non fosse stato per l’ondata di isteria che si abbattè sugli Stati Uniti, dove si prediceva che, se fossimo entrati in guerra contro l’Iraq, sarebbero tornate in patria decine di migliaia di "sacchi neri" con i corpi dei soldati americani. Non senza ragione, Saddam concluse che, se avesse tenuto duro, gli americani avrebbero ceduto.
Il fatto che Saddam avesse fatto male i suoi calcoli e che l’America fosse passata dalle minacce ai fatti non impressionò particolarmente Osama bin Laden. Dopo tutto, temendo le numerose perdite che avremmo subito se, dopo la liberazione del Kuwait, ci fossimo diretti su Baghdad, avevamo permesso a Saddam di restare al potere. Per bin Laden, questa non era altro che un’ulteriore prova della debolezza che avevamo già dimostrato con l’inefficace politica sul terrorismo seguita da una lunga serie di presidenti americani. Non stupisce che fosse convinto di poter colpirci sul nostro territorio, e scamparla.
Tuttavia, proprio come Saddam aveva fatto male i suoi calcoli nel 1990 (e come avrebbe di nuovo fatto nel 2002), bin Laden non capì affatto come avrebbero reagito gli americani se fossero stati colpiti sul loro stesso territorio. Con ogni probabilità, si aspettava un crollo nella disperazione e nella demoralizzazione; invece, ciò che ha ottenuto è stato uno scoppio di rabbia e una rinascita di sentimento patriottico come gli americani più giovani li avevano visti soltanto al cinema e di cui non avevano mai avuto esperienza personale.
In questo senso, bin Laden ha fatto per questo paese esattamente ciò che Khomeini aveva fatto prima di lui. Prendendo in ostaggio cittadini americani, e scampandola senza subire alcune ritorsioni Khomeini aveva inflitto una grande umiliazione agli Stati Uniti. Ma, allo stesso tempo, aveva rivelato quanto fosse stupida la visione del mondo che aveva Jimmy Carter. La stupidità non stava nel fatto che Carter si era reso conto che, perlomeno da dopo il Vietnam in poi, la potenza militare, economica, politica e morale dell’America aveva continuato a decadere. Stava invece nelle conclusione che Carter ne trasse. Anziché proporre politiche intese a fermare il declino, sostenne che la causa risiedesse nel gioco di forze storiche che non potevano in alcun modo essere né fermate né rallentate. A suo giudizio, invece di lamentarci e agitarci in un vano tentativo di riprendere il nostro posto al sole, dovevamo per prima cosa riconoscere, accettare e subire questo inesorabile sviluppo storico, e poi reagire "con misurato equilibrio".
In un sol colpo, l’ayatollah Khomeini mandò all’aria l’illusoria filosofia di Carter, facendola apparire assurda agli occhi di moltissimi americani, compresi quelli che prima l’avevano condivisa. Parallelamente, nuovo coraggio fu infuso in coloro che, rifiutando l’idea che il declino americano fosse inevitabile, avevano sostenuto che la ragione stesse nelle politiche sbagliate e che la tendenza potesse essere invertita ritornando a quelle politiche più efficaci grazie alla quali eravamo diventati una superpotenza.
Tutta la vicenda divenne quindi una delle forze che spingevano una già risoluta determinazione a ricostruire la potenza americana, e il risultato finale fu l’elezione di Ronald Reagan, che aveva impostato la sua campagna elettorale proprio su questo tema. E malgrado tutti i difetti del suo modo di affrontare il terrorismo, Reagan mantenne la sua promessa e ricostruì la potenza americana. E’ stato proprio questo a determinare la vittoria in quella guerra fredda che si combatteva fin dal 1947, quando il presidente americano Harry Truman aveva deciso di resistere contro ogni ulteriore avanzata dell’impero sovietico.
Ben pochi contemporanei di Truman si sarebbero mai sognati che questo prodotto della macchina politica di Kansas City, il quale aveva passato la sua vita occupandosi di tasse e di ferrovie, si sarebbe opposto con tale decisione e successo contro la minaccia dell’imperialismo sovietico. Nello stesso modo, cinquantaquattro anni dopo di lui, un altro politico con una reputazione piuttosto bassa e fino ad allora mai interessato alla politica estera si sarebbe trovato di fronte ad una sfida probabilmente molto più difficile di quella che dovette affrontare Truman; e anche lui ha stupito i suoi contemporanei per la determinazione con la quale ha reagito.
In "The Sources of Soviet Conduct" (del 1947) la difesa teorica della strategia adottata da Harry Truman per combattere la nuova guerra, George F. Kennan (allora direttore del Policy planning staff del Dipartimento di Stato, e autore del documento con lo pseudonimo "X"), descriveva questa strategia come "un contenimento di lungo termine, paziente ma risoluto e attento alla volontà di espansione russa () per mezzo dell’applicazione acuta e vigile della controforza in una serie di aree geografiche e politiche in costante mutamento".
In altri termini (sebbene lo stesso Kennan non abbia usato proprio quelle parole), avevamo di fronte la prospettiva di un’altra guerra mondiale; e benché negli anni successivi, sconfessando il significato evidente delle parole che lui stesso aveva usato, Kennan cercasse di pretendere che la "controforza"che aveva in mente non fosse di tipo militare non sarebbe stata una guerra completamente "fredda". Prima della sua conclusione, sarebbero morti oltre 100.000 americani sui lontani campi di battaglia della Corea e del Vietnam, e sarebbe stato sparso anche il sangue di molti nostri alleati nella lotta ideologica e politica contro l’Unione Sovietica su quegli stessi campi di battaglia e in molti altri ancora.
Per queste ragioni, sono d’accordo con uno dei nostri quattro più autorevoli studiosi di strategia militare, Eliot A. Cohen, il quale ritiene che a quella che si definisce normalmente "guerra fredda" (un’espressione, detto per inciso, coniata dalla propaganda sovietica) dovrebbe essere dato un altro nome. "La guerra fredda", scrive Cohen, fu in realtà "la terza guerra mondiale, cosa che ci fa ricordare che non tutti i conflitti globali implicano il movimento di eserciti di milioni di uomini, o le convenzionali linee del fronte disegnate su una carta". Sono anche d’accordo sul fatto che la natura del conflitto che combattiamo oggi può essere compresa adeguatamente soltanto se lo consideriamo come la quarta guerra mondiale.
Per giustificare questo nome (anziché, per esempio, "guerra al terrorismo"), Cohen elenca "alcune caratteristiche fondamentali" che l’accomunano alla terza guerra mondiale: "Il fatto che sia, in effetti, globale; che preveda una combinazione di iniziative militari e non militari; che richieda la mobilitazione di notevoli capacità, esperienze e risorse, se non di un vasto numero di soldati; che possa durare molto tempo; che abbia radici ideologiche".
C’è ancora una caratteristica in comune non menzionata da Cohen: sia la terza che la quarta guerra mondiale sono state dichiarate per mezzo di una dottrina presidenziale. La dottrina Truman del 1947 nacque con l’annuncio che "la politica degli Stati Uniti doveva essere a sostegno dei popoli liberi che resistono contro la sottomissione da parte di minoranze armate o di pressioni esterne". Cominciando con un programma speciale di aiuti alla Grecia e alla Turchia, che erano minacciate dalla possibilità di un golpe comunista, la strategia fu presto estesa lanciando un ambizioso programma di aiuti economici noto come Piano Marshall.
Lo scopo del Piano Marshall era quello di promuovere e affrettare la ricostruzione dell’economia dell’Europa occidentale, distrutta dalla guerra: non solo perché si trattava di una cosa giusta in sé, né soltanto perché era nell’interesse americano, ma anche perché avrebbe contribuito a eliminare le rimostranze di cui il comunismo si nutriva.
Poi avvenne però un colpo di Stato comunista in Cecoslovacchia. Essendo avvenuto subito dopo l’insediamento nei paesi occupati dell’Europa dell’est di regimi fantoccio da parte dell’Unione Sovietica, il colpo di Stato cecoslovacco dimostrò che le misure economiche non sarebbero state sufficienti per allontanare un analogo pericolo per l’Italia e la Francia da parte dei fortissimi partiti comunisti locali completamente asserviti a Mosca. Sulla base di questa consapevolezza (e di analoghe preoccupazioni su una possibile invasione sovietica dell’Europa occidentale) fu creata la North Atlantic Treaty Organization (Nato).
Il contenimento si presentava quindi come una strategia triplice: economica, politica e militare. Tutte e tre queste componenti sarebbero state utilizzate in varia misura nel corso dei quattro decenni che ci sono voluti per vincere la terza guerra mondiale.
Se la dottrina Truman si è dispiegata in modo graduale, rivelando il suo pieno significato poco a poco, la dottrina Bush è stata enunciata in modo pressoché completo in un solo discorso, pronunciato davanti a una seduta plenaria del Congresso il 20 settembre 2001. E’ stata poi ulteriormente chiarita ed elaborata in tre successive dichiarazioni: il primo discorso sullo stato dell’Unione pronunciato da Bush il 29 gennaio 2002; il discorso all’accademia militare di Westpoint del primo giugno 2002 e le osservazioni sul medioriente rilasciate tre settimane dopo, il 24 giugno. A parte questa differenza, lo stupore è stato altrettanto grande che al tempo di Truman, sia per il contenuto della nuova dottrina sia per la trasformazione che rivelava nel suo autore. Perché George W. Bush, che in politica estera era sempre stato un più o meno passivo discepolo di suo padre, si era messo a parlare come un combattivo seguace di Ronald Reagan.
In netto contrasto con Reagan, generalmente considerato un pericoloso ideologo, Bush padre (che era stato vicepresidente di Reagan) fu spesso accusato di non avere alcuna "visione ideale". L’accusa era giusta perché Bush padre non aveva in effetti alcun principio guida per il ruolo che gli Stati Uniti avrebbero potuto svolgere nel rimodellamento del mondo post guerra fredda. Tenace sostenitore del punto di vista "realista" negli affari mondiali, riteneva che il mantenimento della stabilità fosse lo scopo precipuo della politica estera americana, e la sola via saggia e prudente da seguire. Perciò, quando, nel 1991, Saddam Hussein sconvolse l’equilibrio di potenza in medioriente invadendo il Kuwait, Bush entrò in guerra non per creare una nuova configurazione nella regione ma per restaurare lo status quo ante. E fu a causa della stessa dominante preoccupazione per il mantenimento della stabilità che, dopo avere realizzato l’obiettivo di cacciare Saddam dal Kuwait, Bush lo lasciò al potere.
Prima e dopo l’11 settembre
Quanto al secondo presidente Bush, prima dell’11 settembre era, secondo tutte le apparenza, altrettanto privo di una "visione ideale". Se nutriva qualche dubbio sull’opportunità dell’approccio "realista", non lo dava a vedere. Nulla di ciò che diceva o faceva poteva in alcun modo far supporre che fosse insoddisfatto dell’idea secondo la quale il suo principale compito in politica estera era quello di mantenere in equilibrio la situazione. Né c’era alcun segno che potesse essere attratto dalla più "idealistica" ambizione reaganiana di cambiare il mondo, e in particolare con il fine "wilsoniano" di renderlo un luogo "sicuro per la democrazia" incoraggiando in tutti i paesi possibili le libertà di cui godevano gli americani. E’ per questo che il discorso fatto da Bush il 20 settembre 2001 ha lasciato tutti di stucco. Pronunciato soltato nove giorni dopo l’attacco al World Trade Center e al Pentagono, con l’ufficiale dichiarazione che gli Stati Uniti erano ora in guerra, il discorso del 20 settembre diede a questa nazione la consapevolezza che, pur se era stato davvero un rigido e tradizionale realista come suo padre, George W. Bush era ora diventato un politico rinato come un appassionato idealista della democrazia secondo il modello reaganiano.
Questo discorso fu anche l’atto di nascita della dottrina Bush, nella quale si delineava il concetto di quarta guerra mondiale con la stessa chiarezza con cui nella dottrina Truman si era delineato quello di terza guerra mondiale. Bush non definì esplicitamente quarta guerra mondiale il nuovo conflitto, ma lo caratterizzò come il diretto successore delle due precendenti guerre mondiali. Così, a proposito della "rete terroristica globale" che ci aveva attaccato sul nostro stesso suolo, disse: "Abbiamo già visto questo tipo di cose. Sono le eredi di tutte le violente ideologie del ventesimo secolo. Sacrificando la vita umana al servizio delle loro idee radicali, rinunciando ad ogni valore tranne che alla volontà di potenza, seguono la strada del fascismo, del nazismo e del totalitarismo. E continueranno a seguire quella strada fino a precipitare nella fossa comune delle menzogne".
Se questo passaggio, all’inizio del discorso, collegava la dottrina Bush a quella Truman e alla grande battaglia prima combattuta da Franklin D. Roosevelt, la parte finale dimostrava che, se il presidente George W. Bush non aveva fino ad allora avuto una "visione ideale", ora gli luccicava addirittura negli occhi. "Ci è stato fatto un enorme male", proclamò verso la fine, "abbiamo subito una grande perdita. Ma nel nostro dolore e nella nostra rabbia abbiamo trovato la nostra missione e il nostro scopo". Poi ne definì concretamente il contenuto: "Il progresso della libertà umana, il grande risultato del nostro tempo e la grande speranza di sempre, ora dipende da noi. La nostra nazione libererà il suo popolo e il suo futuro da quest’oscura minaccia di violenza. Con il nostro impegno e il nostro coraggio, chiameremo a raccolta il mondo. Non si stancheremo, non tentenneremo e non falliremo".
Alla fine del suo appello, usando in parte le stesse parole che prima aveva riferito alla nazione nel suo complesso, Bush passò a parlare in prima persona, giurando il proprio impegno nella grande missione che tutti eravamo chiamati a compiere: "Non dimenticherò la ferita inferta al nostro paese né tantomeno coloro che ci hanno colpito. Non esiterò, non mi fermerò e non mi tirerò mai indietro in questa battaglia per la libertà e la sicurezza del popolo americano. Lo svolgimento di questo conflitto è ignoto, ma il suo risultato è certo. La libertà e la paura, la giustizia e la crudeltà, sono sempre state in guerra, e noi sappiamo che Dio non è neutrale in questa lotta".
Nemmeno Ronald Reagan, il "Grande Comunicatore", aveva mai espresso con simile eloquenza lo slancio "idealistico" sul quale si fondava la sua concezione del ruolo dell’America nel mondo. E non è stata la sola volta che Bush ha battuto su questo tasto. Due anni e mezzo dopo il discorso del 20 settembre 2001, in un momento in cui la guerra sembrava andare molto male, ha ribadito le stesse idee con cui aveva cercato di rincuorare la nazione subito dopo gli attentati. L’occasione è stata un discorso d’apertura alla Air Force Academy, pronunciato il 2 giugno 2004, nel corso del quale ha ripetutamente posto la "guerra contro il terrorismo" in diretta successione alla seconda e alla terza guerra mondiale. Ha anche rinunciato a qualsiasi cortesia diplomatica nel suo rifiuto del realismo: "Per decenni, le nazioni libere hanno tollerato, in nome della stabilità, l’oppressione in medioriente. In pratica, questo atteggiamento ha portato soltanto a meno stabilità e a più oppressione. Perciò, ho deciso di cambiare politica".
E in modo ancora meno diplomatico: "Alcuni di coloro che si definiscono realisti si chiedono se la diffusione della democrazia in medioriente debba essere una nostra preoccupazione. Ebbene, i realisti in questo caso hanno perso contatto con una realtà fondamentale: l’America è sempre stata meno al sicuro quando la libertà è costretta a battere in ritirata, e lo è sempre stata di più quando la libertà marcia trionfalmente in avanti".
Per coronare il tutto, Bush ha infine asserito che la sua politica, da lui giustificata in primo luogo come il modo migliore per proteggere gli interessi americani, si inseriva anche nel solco della versione reaganiana dell’idealismo wilsoniano: "Questo conflitto avrà molte svolte, e ci saranno disfatte lungo la strada della vittoria. Ma la nostra fiducia deriva da una convinzione incrollabile: Noi crediamo nelle parole di Ronald Reagan, il quale affermava che ‘il futuro appartiene agli uomini liberi’".
Il primo pilastro della dottrina Bush, dunque, poggia sul rifiuto del relativismo morale e su una affermazione aperta e risoluta della necessità e della possibilità di un giudizio morale nell’ambito degli affari internazionali. E per essere certo che ciò che aveva detto il 20 settembre 2001 aveva colpito nel segno, Bush lo ha ribadito con precisione ancora maggiore nel discorso sullo stato dell’Unione, pronunciato il 29 gennaio 2002.
Bush aveva ottenuto da molti un entusiastico applauso per la "chiarezza morale" del suo discorso del 20 settembre, ma aveva anche provocato un disprezzo e un disgusto ancora più profondi in numerosi pensatori "progressisti", commentatori "raffinati" e diplomatici, tanto in patria quanto all’estero. Nel discorso sullo stato dell’Unione esasperò addirittura il loro sdegno mettendosi a parlare in modo più specifico. Mentre prima aveva parlato soltanto in termini generali del nemico contro il quale dovevamo combattere la quarta guerra mondiale, ora Bush indicò tre nazioni (Iraq, Iran e Corea del Nord), da lui definite come parte di un "asse del male".
Dall’impero all’asse
Ancora una volta Bush seguiva in questo le orme di Ronald Reagan, il quale aveva denunciato l’Unione Sovietica (nostro principale nemico durante la terza guerra mondiale) come un "impero del male" ed era stato accolto da un autentico scoppio di isteria nelle ambasciate, nelle università e nei giornali di tutto il mondo. Male? Quale posto poteva avere una parola come quella nel vocabolario degli affari internazionali, concesso poi che non sarebbe mai venuto in mente a una persona illuminata di riesumarla dal cimitero dei concetti antiquati nemmeno per impiegarla in qualsiasi altro ambito? Ma agli occhi degli "esperti", Reagan non era affatto una persona illuminata. Era invece un "cowboy", un attore di film di serie B, il quale, per qualche meccanismo perverso della democrazia, era riuscito a salire alla Casa Bianca. Per la sua denuncia dell’impero sovietico, Reagan fu accusato sia di volere scatenare una guerra nucleare sia di essere troppo stupido per capire ciò che la sua retorica violentemente provocatoria avrebbe inavvertitamente potuto provocare.
La reazione di fronte alle parole di Bush è stata forse meno isterica ma più sprezzante e sdegnata rispetto a quella suscitata da Reagan, dal momento che in questo caso non si è paventata la guerra nucleare. Ma l’atmosfera è stata altrettanto spessa e fitta di scherno e derisione. Chi altri se non un ignorante sempliciotto o un fanatico fondamentalista religioso potrebbe ricorrere a antiquati e sorpassati commenti morali assoluti come "bene" e "male"? Da un lato, ci voleva davvero una massiccia dose di semplicioneria per bollare un’intera nazione come il "male"; dall’altro, soltanto uno sciocco come Bush (ancora più di Reagan) poteva convincersi e sostenere con completa e infantile sincerità che solo gli Stati Uniti, tra tutti i paesi del mondo, rappresentino il bene. Senza dubbio soltanto un ignorante zoticone può non essere consapevole degli innumerevoli crimini commessi dall’America, tanto sul suo stesso suolo quanto all’estero; crimini che i più autorevoli intellettuali del paese hanno documentato con la massima precisione richiesta dalla ormai classica visione accademica della storia di questo paese.
Ecco come si esprime Gore Vidal, uno di questa schiera di intellettuali: "Insomma, vedere Bush fare la sua piccola danza di guerra nel Congresso contro i "malfattori" e "l’asse del male" () Ho pensato: non sa nemmeno che cosa significhi la parola ‘asse’. Qualcuno deve avergliela suggerita. E’ forsa la cosa più insensata che si possa dire. Poi se ne viene fuori con una dozzina di altri paesi che ospitano gente ‘cattiva’, che potrebbe compiere ‘atti terroristici’. Che cos’è un atto terroristico? Tutto ciò che secondo lui è un atto terroristico. E noi daremo la caccia ai terroristi. Perché noi siamo il bene e loro sono il male. E li ‘beccheremo’".
Sono parole più dure e violente di quelle lette sulle pagine degli editoriali, ascoltate nei think tank e nei ministeri esteri o espresse dalla maggior parte degli altri intellettuali, ma in realtà niente affatto diverse da ciò che quasi tutti costoro pensano e dicono in privato.
Ma si è capito abbastanza presto che Bush non si sarebbe fatto intimidire. In successive dichiarazioni ha continuato a ribadire il primo pilastro della sua dottrina e ad affermare l’universalità del fine morale che anima questa nuova guerra: "Alcuni si preoccupano del fatto che non sia diplomatico o gentile parlare nei termini di ciò che è giusto o sbagliato. Non sono d’accordo. Circostanze differenti richiedono metodi differenti, ma non principi morali differenti. La verità morale è la stessa in ogni cultura, in ogni tempo, in ogni luogo. Siamo impegnati in una battaglia tra il bene e il male, e l’America chiama il male con il suo nome".
Poi, con un affascinante salto nel grande dibattito teoretico dell’era post guerra fredda (sebbene senza identificare i principali partecipanti), Bush si è schierato apertamente dalla parte della molto fraintesa tesi di Francis Fukuyama sulla "fine della storia", secondo la quale la sconfitta del comunismo aveva eliminato il solo vero rivale del nostro sistema politico: "Il ventesimo secolo si è concluso con un solo modello ancora in vita di progresso umano, fondato su esigenze imprescindibili della dignità umana, sul regno della legge, sui limiti del potere dello Stato, sul rispetto delle donne, della proprietà privata, della libertà di parola, della giustizia uguale per tutti e della tolleranza religiosa".
Dopo avere condiviso la tesi di Fukuyama, Bush ha respinto la tesi rivale del politologo Samuel Huntington, secondo il quale stiamo assistendo ad uno "scontro di civiltà", nato dal conflitto fra visioni apparentemente incompatibili dominante nelle varie regioni del mondo: "Quando si tratta dei diritti comuni e delle esigenze degli uomini e delle donne, non c’è nessuno scontro di civiltà. I canoni della libertà sono gli stessi in Africa, in America Latina e nel mondo islamico. I popoli delle nazioni islamiche desiderano e meritano le stesse libertà e le stesse opportunità che hanno i popoli di altre nazioni. I loro governi devono soddisfare queste speranze".
Il regime change
Se il primo dei quattro pilastri sui quali poggia la dottrina Bush è rappresentato da un nuovo atteggiamento morale, il secondo è costituito da un altrettanto significativo spostamento di concezione sul terrorismo rispetto alla definizione che si è imposta nel mondo accademico e in quello degli intellettuali. In base a questa nuova concezione (confermata ripetutamente dal fatto che la maggior parte dei terroristi di cui sappiamo qualcosa provengono da famiglie benestanti), il terrorismo non viene più considerato il prodotto di fattori economici. Le "paludi" in cui questa peste assassina si nutre non sono quelle della povertà e della fame ma quelle dell’oppressione politica. Soltanto prosciugando queste paludi attraverso una strategia di "cambio di regime" possiamo liberarci dalla minaccia del terrorismo e allo stesso tempo dare ai popoli di "tutto il mondo islamico" le libertà che "desiderano e meritano".
Inoltre, secondo questa nuova concezione, i terroristi, con pochissime eccezioni, non sono folli che agiscono per proprio conto, ma agenti di organizzazioni che dipendono dall’appoggio di vari governi. Il nostro scopo, perciò, non può essere semplicemente quello di catturare o uccidere Osama bin Laden e di annientare i terroristi di al Qaida che stanno ai suoi ordini. Bush ha giurato che sradicheremo e distruggeremo l’intera rete delle organizzazioni e delle cellule terroristiche "con ramificazioni globali" che hanno le proprie basi in almeno 50 o 60 paesi. Non considererò più i membri di questi gruppi come criminali comuni che devono essere arrestati dalla polizia, ai quali devono essere concessi tutti i diritti e che devono essere sottoposti a regolare processo. Da ora in poi, devono essere considerati come cambattenti irregolari di una alleanza militare in guerra contro gli Stati Uniti, e anzi contro tutto il mondo civile.
Non che questa analisi del terrorismo fosse stata esattamente un segreto. Lo stesso Dipartimento di Stato aveva redatto un elenco di sette Stati sponsor del terrorismo tutti tranne due, Cuba e la Corea del Nord, sono a maggioranza musulmana e pubblicava regolarmente rapporti sugli attentati terroristici in tutte le regioni del mondo. Ma a parte il lancio di un paio di missili cruise, qualche provvedimento diplomatico e qualche sanzione economica applicata in modo saltuario e soltanto proforma, nonché un certo numero di operazioni segrete, continuava a dominare l’approccio legalistico.
L’11 settembre ha cambiato molto, se non proprio tutto. Ma continuavano a essere usate frasi arcaiche come "consegnare i terroristi alla giustizia". Ma nessuno poteva più sognarsi che la risposta americana a ciò che ci era stato fatto a New York e Washington avrebbe potuto cominciare con un’indagine dell’Fbi e terminare con una serie di normali processi. Era stata dichiarata guerra contro gli Stati Uniti, e gli Stati Uniti erano entrati in guerra.
Ma contro chi? Poiché era certo che Osama bin Laden era l’architetto dell’11 settembre, e poiché Osama stesso si nascondeva in Afghanistan insieme alla leadership di al Qaida, il primo obiettivo, e quindi il primo banco di prova per questo secondo pilastro della dottrina Bush si è offerto da se stesso.
Prima di ricorrere alla forza militare, tuttavia, Bush ha lanciato un ultimatum ai radicali estremisti talebani che erano al potere in Afghanistan. L’ultimatum richiedeva ai talebani di consegnarci Osama bin Laden e i suoi seguaci e di chiudere tutti i loro campi di addestramento. Rifiutando l’ultimatum, i talebani hanno provocato non soltanto l’invasione del paese ma anche, in base alla dottrina Bush, il loro stesso rovesciamento. Così, il 7 ottobre 2001, gli Stati Uniti (affiancati dalla Gran Bretagna e da una dozzina di altri Stati) hanno sferrato una campagna militare contro al Qaida e il regime che le forniva "aiuto e protezione".
In confronto a quello che sarebbe avvenuto in seguito, non ci fu molta opposizione né in patria né all’estero al momento dell’apertura del primo fronte di battaglia della quarta guerra mondiale. Il motivo era che la campagna in Afghanistan poteva essere facilmente giustificata come una ritorsione contro i terroristi che ci avevano attaccato. E, per quanto si discutesse piuttosto animatamente sul pericolo di seguire una politica di "cambio di regime", in pratica c’era ben poca simpatia (al di fuori del mondo musulmano, ovviamente) per i talebani.
Tutte le critiche contro la guerra in Afghanistan si condensavano in uno scetticismo sulle possibilità di vincerla. In verità, dietro a questo scetticismo si nascondeva in certi settori una vera e propria opposizione contro la potenza americana in generale. Ma una volta avviata la campagna afghana, l’attenzione principale fu rivolta a tutto ciò che sembrava andare storto sul campo di battaglia.
Per esempio, soltanto un paio di settimane dopo l’inizio della campagna, quando ci furono alcuni passi falsi nell’uso dei combattenti afghani dell’Alleanza del Nord, osservatori come R.W. Apple, del New York Times, richiamarono immediatamente lo spettro del Vietnam. Questo fantasma inquietante, richiamato dalle vaste profondità, da questo momento in poi rifiutò di farsi esorcizzare, e si sarebbe insinuato in tutti i dibattiti sulle prime battaglie della quarta guerra mondiale. In quest’occasione, il messaggio era che stavamo cadendo vittime dell’illusione che potevamo contare su una forza locale male addestrata per svolgere i combattimenti sul terreno mentre noi ci limitavamo a fornire il supporto logistico e la copertura aerea.
Questa strategia era inevitabilmente destinata a fallire, e ci avrebbe fatto precipitare in quello stesso "pantano" in cui eravamo finiti in Vietnam. Dopo tutto, come Apple e altri hanno sostenuto, anche l’Unione Sovietica aveva subito il proprio "Vietnam" in Afghanistan, ma, a differenza nostra, non era stata intralciata dai problemi logistici di proiezione della forza militare a grande distanza. Come ci si poteva aspettare di avere maggiore successo?
Tuttavia, quando i B52 scaricarono le bombe da 15 mila libbre "Daisy Cutter", lo spettro del Vietnam scomparve, almeno temporaneamente, e smentì i timori di alcuni (e le speranze di altri) che stavamo finendo in un pantano. Ben lungi dal non servire ad altro che "abbattere le macerie", come gli avversari di Bush avevano scritto con sarcasmo, le "Daisy Cutter" hanno avuto, come persino un articolo del New York Times ha dovuto ammettere, "un terrificante effetto psicologico nel momento stesso in cui esplodevano sul terreno, spazzando via tutto quello che esisteva nel raggio di chilometri".
Ma le "Daisy Cutters" erano solo una parte della storia. Come tutti scoprirono presto, le nostre "bombe intelligenti" avevano ormai una tecnologia molto superiore a quelle usate nel 1991. Nel 2001, in Afghanistan, queste bombe (guidate da uomini "spotters" sul terreno, equipaggiati con radio, computer, laser, che molto spesso si muovevano a cavallo e aiutati da satelliti e altri rilevatori aerei) si sono dimostrate incredibilmente precise, evitando perdite di civili e causando enorme distruzione nelle postazioni nemiche. E’ stato questo "nuovo tipo di potenza americana", si leggeva nello stesso articolo del New York Times, "a offrire a una forza male addestrata" (vale a dire la stessa Alleanza del Nord che, a quanto pare, ci stava trascinando in un pantano) la possibilità di sconfiggere le "truppe esperte" dei talebani in meno di tre mesi, e con la perdita di pochissimi soldati americani. Osama non è stato catturato, e al Qaida non è stata annientata. Ma è stata fortemente danneggiata dalla campagna afghana. Quanto al regime talebano, è stato rovesciato e sostituito da un governo che non avrebbe più dato aiuto e protezione ai terroristi. Per di più, per quanto il nuovo governo afghano possa non essere ancora una perfetta democrazia, è infinitamente meno oppressivo della dittatura che lo ha preceduto. E grazie alla bonifica del terreno politico (che era stato infestato dal radicale estremismo islamico dei talebani), è stato gettato il seme di libere istituzioni è gli è stata data la possibilità concreta di crescere e svilupparsi.
La campagna in Afghanistan ha dimostrato nel modo più evidente le conseguenze della nuova concezione del terrorismo che costituisce il secondo pilastro della dottrina Bush: i paesi che davano rifugio ai terroristi e che si rifiutavano di cacciarli dal loro territorio ne affidavano di fatto il compito agli Stati Uniti, e i regimi che erano al potere in questi paesi si esponevano al rischio di essere rovesciati e sostituiti da nuovi leader sostenitori dei principi democratici. Naturalmente, a seconda delle circostanze, altri strumenti di potere, economici o diplomatici, potevano essere impiegati. Ma l’Afghanistan aveva dimostrato che l’opzione militare era reale, e fatalmente efficace. (2. continua)
Norman Podhoretz
© Commentary – Il Foglio
traduzione di Aldo Piccato
(la prima puntata è stata pubblicata sabato 28 agosto, la terza uscirà domani)