A New York la convention repubblicana di lunedì si aprirà con una grande notizia per George W. Bush e il suo stratega Karl Rove: l’ultimo sondaggio, pubblicato ieri sul Los Angeles Times, vede il presidente in netto vantaggio sul rivale John Kerry, ed è la prima volta dall’inizio dell’anno. In una corsa a due, Bush avrebbe il 49 per cento dei voti contro il 46 dello sfidante democratico. Un mese fa, con lo stesso campione, Kerry aveva due punti di vantaggio. Se si considerasse anche la presenza del terzo candidato, Ralph Nader, le percentuali sarebbero: Bush 47 per cento, Kerry 44 e Nader 3. In entrambi i casi ci sarebbe una percentuale tra il 6 e il 7 per cento di indecisi, fondamentali per capire chi vincerà il 2 novembre. Il sondaggio svela un’altra cosa: i cinque punti guadagnati da Bush arrivano in seguito alla campagna dei reduci del Vietnam contro Kerry. Quegli spot che hanno messo in dubbio l’eroismo del senatore del Massachusetts, cioè il punto centrale della campagna elettorale di Kerry, hanno funzionato. Si vedrà, nei prossimi giorni, se i rapporti sugli abusi di Abu Ghraib avranno altrettanto effetto sull’elettorato. I repubblicani esultano perché i due documenti esonerano completamente sia Donald Rumsfeld sia la politica del Pentagono, e circoscrivono la responsabilità ai 27 militari che si sono macchiati dei reati. Kerry non è convinto e, chiedendo le dimissioni di Rumsfeld, alza il tiro su uno dei fallimenti dell’Amministrazione Bush in Iraq per non parlare più dell’oramai pericolosissimo Vietnam.
Si dice che l’America sia perfettamente divisa tra Stati saldamente democratici e Stati saldamente repubblicani, con un pugno di Stati indecisi nei quali si gioca la battaglia di novembre. Il settimanale Weekly Standard contesta questa semplificazione e, dati alla mano, spiega che sarebbe meglio essere più prudenti. Prendiamo la Louisiana, uno Stato dove si dice che Bush potrebbe evitare di fare campagna elettorale tanto è filo repubblicano. Eppure lì sia il governatore sia i due senatori sono democratici. Un caso isolato? Niente affatto. In South Dakota, dove Bush nel 2000 vinse con oltre il 60 per cento, i due senatori sono democratici e il primo giugno scorso, cioè qualche settimana fa, è stato eletto un democratico anche al Congresso. In North Dakota, Stato che tutti assegnano già a Bush, c’è la stessa situazione: due senatori democratici su due, e con loro anche un deputato. Ma, attenzione, il fenomeno non riguarda soltanto gli Stati bushiani. Rhode Island, Maryland, New York e finanche il Massachusetts, storiche roccaforti liberal o democratiche, hanno governatori repubblicani, e a New York anche il sindaco. La California liberal? Governatore repubblicano. Le repubblicane Virginia e Tennessee? Entrambe guidate da un governatore democratico. Soltanto 16 Stati su 50 hanno le tre cariche nazionali, due senatori e un governator, dello stesso partito che nel 2000 vinse il voto presidenziale.
Lewis H. Lapham è un raffinato giacobino che dirige un elegante mensile ultra liberal, Harper’s. Lapham odia così tanto la politica di George W. Bush da essere incappato in un infortunio giornalistico non comune negli Stati Uniti. Nel numero di settembre della rivista, chiuso in tipografia a luglio e non ancora uscito in edicola, ha scritto un violento articolo intriso di radicalismo chic contro Bush e, in particolare, contro "i discorsi" ascoltati "al Madison Square Garden". Solo che la convention non è ancora cominciata.