New York. Il modello del discorso che George W. Bush ha pronunciato ieri notte al Madison Square Garden, nell’ultima giornata della convention repubblicana, non poteva che essere quello di Franklin Delano Roosevelt, anno domini 1944. Entrambi presidenti di guerra, FDR e GWB hanno difeso la loro scelta bellica, smontato le accuse degli avversari, rigettato i dubbi dei pessimisti e soprattutto parlato con ottimismo delle sfide del futuro. Così come capitò a Roosevelt, nell’accettare la candidatura Bush ha dovuto squadernare la sua "vision", cioè la sua strategia non attendista per proteggere l’America nei "four more years", nei prossimi quattro anni alla Casa Bianca. Un semplice "ehi, restiamo in Iraq finché il lavoro non sarà finito" non sarebbe servito a trasmettere agli incerti l’importanza della posta in gioco il 2 novembre.
Così, a dispetto di una convention che dai giornali è stata definita "moderata", moderata non è stata affatto sui temi della sicurezza e della politica estera né con Rudy Giuliani né con John McCain, né con Arnold Schwarzenegger, tantomeno mercoledì sera con Zell Miller e con Dick Cheney. Certo, Cheney a parte, le facce erano le più liberal e indipendenti tra quelle a disposizione del partito repubblicano, ma il messaggio è stato d’attacco e di sostegno senza condizioni alla dottrina Bush.
L’ex sindaco Giuliani ha regolato il tono dell’intera convention sull’emozione dell’11 settembre; il senatore John McCain, che John Kerry avrebbe tanto voluto nella sua squadra, ha spiegato che liberare i popoli del medio oriente è la strategia migliore per difendere l’America; il genero dei Kennedy, Arnold Schwarzenegger, ha detto con l’eloquenza dell’action hero di Hollywood che il terrorismo è un pericolo più grande del comunismo; il senatore democratico Zell Miller con il livore dell’ex ha urlato che l’esercito americano è la più grande istituzione democratica del pianeta, altro che forza d’occupazione; mentre Dick Cheney, con il suo solito tono freddo e distaccato che rende quasi irreali le tremenderie che gli escono dalla bocca, ha puntato sulle qualità di leadership che Bush avrebbe e Kerry no. Finanche Laura Bush, first lady di stampo tradizionale, per la prima volta in quattro anni ha parlato di politica, e tra un quadretto familiare e l’altro ha ricordato i due popoli liberati dalla tirannia e ha messo a segno un colpo citando il suo amico Vaclav Havel per spiegare agli impazienti che a Bassora vorrebbero già istituzioni anglosassoni che la democrazia ha bisogno di tempo e di partecipazione per emergere e consolidarsi.
Bush ha puntato su un messaggio positivo e ottimista, dunque. Anche perché il lavoro sporco lo avevano già fatto mercoledì sera Miller e Cheney, descrivendo bruscamente Kerry come "unfit", non in grado di guidare l’America. Il tono era stato più lieve nei due giorni precedenti, quando gli oratori specie Giuliani hanno preferito ridicolizzare le portentose indecisioni di Kerry piuttosto che offenderlo.
Di nuovo in testa nei sondaggi
Pare che tutto questo funzioni. Bush ha ripreso la testa dei sondaggi già nei giorni precedenti la convention, in concomitanza con la campagna dei reduci del Vietnam che ha reso pubblica la contraddizione di un candidato, Kerry, che è stato prima eroe di guerra e poi eroe dell’antiguerra. Ora dovrà aspettare il "bounce", cioè l’effetto che la convention ha avuto sull’elettorato. Secondo Newsweek, Bush è già in testa in alcuni Stati come la Pennsylvania che sembravano assegnati a Kerry.
Pare che funzioni perché, improvvisamente, sono 53 gli americani su cento a credere che il presidente stia facendo un buon lavoro. La controprova è nell’inaspettato rimpasto nella squadra di strateghi elettorali, cui Kerry l’altro ieri è stato costretto.
Ieri sera, stando alle anticipazioni, Bush ha fornito anche i dettagli del suo programma di politica interna, al quale ha dedicato metà dei 40 minuti di intervento. L’idea nuova è quella della "ownership society", la costruzione di una società di proprietari che aiuti i cittadini a controllare non solo la casa in cui vivono, ma anche la propria fetta di sistema previdenziale e una parte dell’assistenza sanitaria. Quattro anni fa il "conservatorismo compassionevole" aiutò Bush a vincere le elezioni, stavolta non c’è una parolina magica, ma il tentativo di ritrarre il presidente come un leader ottimista, di principi saldi, "fit to command" e con una visione strategica per il futuro.