New York. George Bush e John Kerry hanno discusso di politica estera e di sicurezza nazionale per 90 minuti, esattamente quanto dura una partita di calcio. Al fischio finale è cominciato il circo del dopopartita, con le interviste a caldo alla squadra del presidente e agli avversari democratici, entrambi stipati nella sala stampa adiacente l’arena dell’Università di Miami dove si è tenuto il dibattito. "Siamo molto contenti" hanno detto i primi. "Il nostro candidato è andato molto bene", hanno risposto gli altri. Tutto secondo copione i commenti partisan, anche se in un fuori onda, colto dalla tv C-Span, due degli strateghi di Kerry, Joe Lockhart e Mike McCurry, si sono lasciati scappare un più onesto "è stato un pareggio" che poi pubblicamente non hanno ripetuto. L’arbitro, Jim Lehrer, è stato imparziale ma non ha fatto domande insidiose né ha chiesto i loro piani su Fallujah, la città irachena in mano ai terroristi. Sono seguite le classiche discussioni tra gli opinionisti in studio, con ricorsi al moviolone per vedere e rivedere questo o quel passaggio del match. I commenti sulla filorepubblicana Fox News erano favorevoli a Kerry mentre sulle tv più liberal emergeva la performance di Bush.
Ci sono stati anche sondaggi istantanei, focus group di elettori indecisi e televoti, subito più favorevoli a Kerry. Secondo la Gallup ha vinto Kerry 53 a 37, ma per lo stesso sondaggio Bush ha confermato di essere più duro, più simpatico e più credibile dell’avversario. Dal 1984 a oggi solo una volta il sondaggio post dibattito della Gallup è stato confermato dal risultato elettorale (Gallup, 20 anni fa rilevò una vittoria di Walter Mondale su Ronald Reagan di 20 punti). La Abc ha valutato le intenzioni di voto dopo la sfida e il risultato non ha mutato il margine precedente il dibattito (+ 6 per Bush).
Prevale la tesi del pareggio. Bush non ha sfoderato il colpo del ko, né Kerry ha tramortito il presidente. Entrambi hanno fatto errori, in un dibattito molto serio e ricco di contenuti. A Kerry sono scappati un accenno a un aumento delle tasse e una formula, "consenso globale", per le decisioni sulla sicurezza interna. Bush un paio di volte è sembrato a corto di argomenti e ha ripetuto più volte che in Iraq sarà "un lavoro duro". Kerry ha segnato un punto quando ha ricordato a Bush che non è stato Saddam ad attaccare l’America. Mentre Bush è stato efficace quando ha fatto notare che Kerry non riuscirà a coinvolgere altri paesi in Iraq se sostiene che la guerra sia stata sbagliata.
Sulla minaccia nucleare della Corea del nord, le posizioni si sono ribaltate. Kerry ha accusato Bush di non aver fatto pressioni unilaterali sul regime di Pyongyang, mentre Bush ha difeso la sua strategia multilaterale che coinvolge, nello stesso tavolo, anche Cina, Russia, Giappone e Corea del sud.
Mani tremanti ed esitazioni
Come in ogni pareggio calcistico, la discussione ora è se il punticino sia guadagnato o perso. Il tema della guerra è il punto forte di Bush, ma anche il suo punto debole. Chi guarda il mondo con un’ottica pre 11 settembre sostiene che Kerry abbia vinto in stile e linguaggio; chi crede che quel giorno sia iniziata la IV guerra mondiale pensa che la risposta di Bush sia più adeguata. In quanto sfidante, Kerry era sfavorito ma è andato molto bene e ora bisogna vedere se è riuscito a cambiare il corso della campagna. All’inizio è sembrato più teso, e gli tremavano le mani. Poi ha riacquistato fiducia e sono emerse le sue maggiori capacità professionali (ma chissà se sia stato un buon colpo aver elogiato più volte Bush senior e i suoi uomini della tradizionale destra americana). Sembrava un pubblico ministero, quando accusava Bush. Nella seconda parte è riuscito a renderlo esitante, a disagio, ripetitivo. Soprattutto Kerry può ritenersi soddisfatto perché è riuscito a sembrare "presidenziale" accanto all’attuale comandante in capo. Non s’è contraddetto, non è apparso debole, ha ripetuto che non lascerà l’Iraq se non dopo aver vinto, e che il suo obiettivo sarà quello di rendere l’America più forte in casa e più rispettata nel mondo.
Sulla sostanza è stato più convincente Bush. Il dibattito ha confermato tutto quello che già si sapeva, e cioè che in campo c’è un presidente che ha la "vision thing", cioè un’idea condivisibile o meno, secondo cui c’è un nemico che ha dichiarato guerra all’occidente, che questo nemico vada combattuto in modo aggressivo e che nel lungo termine la strategia migliore sia quella di diffondere la libertà e la democrazia in Medio Oriente.
Dall’altra parte c’è un ottimo politico che ha votato la guerra, ma ora la giudica sbagliata; che crede ancora nella pericolosità di Saddam Hussein, ma pensa che non andava rimosso; che sostiene l’Iraq sia stata una deviazione dalla vera guerra al terrorismo, ma aggiunge che i terroristi combattono in Iraq; che accusa il presidente Bush di non aver fornito ai militari l’equipaggiamento necessario, ma ha votato contro il finanziamento della missione e ora critica il presidente perché ha speso troppo. Soprattutto, il candidato dei democratici sull’Iraq non ha un piano diverso da quello di Bush. Per il senatore John Kerry la difesa comincia in casa, migliorando i controlli alle frontiere e negli scali americani. La filosofia di Bush è opposta, per lui la migliore difesa è l’attacco. Insomma uno è trapattoniano, l’altro sacchiano.