Semplicemente, John F. Kerry è il candidato sbagliato. Non è vero che gli americani sono disposti a votare "chiunque, tranne Bush", solo per punire il presidente degli errori commessi in Iraq o per non essere riuscito a far dimenticare la crisi economica. "Mister chiunque" deve comunque guadagnarseli i voti dei delusi, deve dimostrare di essere un’alternativa credibile al comandante in capo, specie nel bel mezzo di una guerra che è stata definita generazionale. La corsa alla Casa Bianca non è ancora finita, si voterà il 2 novembre, ma gli ultimi sondaggi sembrano non lasciare speranze allo sfidante del partito Democratico. Oggi non c’è punto, argomento o tema sul quale Kerry sia in vantaggio, nonostante il primo dibattito presidenziale abbia fatto salire le sue quotazioni.
Kerry dà l’impressione di agire non in base alle proprie convinzioni, ma a seconda dei sondaggi o di una strategia studiata a tavolino. La propaganda bushiana ci va a nozze: Kerry non sa che cosa vuole, è un flip flopper, una banderuola, uno che cambia spesso posizione.
Eppure sembrava che il candidato democratico avesse la strada spianata prima dell’estate. Bush, certo, può vantare di aver liberato due paesi. Ma su di lui pesano il terrorismo che non si cheta, le armi di distruzione di massa che non si trovano, i fallimenti dei servizi segreti, la confusa gestione post bellica, l’inefficace ricostruzione dell’Iraq, i marines che continuano a morire, il crescente antiamericanismo nel mondo e, cosa ancora più grave, sembra che il suo piano per la vittoria in Iraq non funzioni.
Kerry però non ha mai offerto un’alternativa vera. Prima ha votato a favore della guerra, poi contro il finanziamento della missione; ha accusato Bush di aver speso troppo poco per il nuovo Iraq e poi di aver speso troppo; e così via. Ogni settimana ha cambiato posizione, pro o contro la guerra, a seconda della convenienza del momento. E’ arrivato al punto di aver esaurito tutte le posizioni possibili, rischiando di non risultare più credibile agli occhi della maggioranza degli elettori. Ora il suo piano in quattro punti per vincere in Iraq è molto simile a quello che sta già applicando Bush: coinvolgimento internazionale; addestramento truppe irachene; ricostruzione del paese; elezioni il prossimo anno.
Il punto è che Kerry non è stato scelto per affrontare una situazione di questo tipo, cioè il caos in Iraq. Il processo di selezione di "mister chiunque", infatti, è iniziato quando lo scenario era completamente diverso: Bush era ancora il presidente che aveva unificato gli americani dopo l’attacco subito l’11 settembre. A quel punto la vittoria in Iraq sembrava travolgente. La base del partito democratico era contraria all’intervento per destituire Saddam, ma la stragrande maggioranza degli americani no. Per non partire già sconfitto serviva un candidato che non avrebbe parlato di Iraq, ma di posti di lavoro e di crisi economica. Di guerra no, perché è difficile defenestrare un comandante in capo mentre la battaglia è ancora in corso. La strategia non ha funzionato.
Bush non piace a molti americani, i dubbi sull’avventura in Iraq aumentano, ma certo dice quello che pensa e intende quello che dice. Kerry appare magari più preparato, magari più intelligente, ma certo più politicante di Bush.
Kerry è stato scelto dal suo partito perché era il più invisibile tra i candidati Democratici, né falco né colomba, un po’ a favore e un po’ contro tutte le altre questioni su cui Bush invece non ha dubbi: taglio delle tasse, il matrimonio gay, la pena di morte, la guerra all’asse del male. Kerry ha battuto i concorrenti del suo partito perché non era pacifista come Howard Dean, il prediletto dai militanti, ma neanche favorevole alla rivoluzione in Medio Oriente come Joe Lieberman, l’unico che quanto a risolutezza contro i terroristi non avrebbe sfigurato davanti a Bush. Si pensava che servisse proprio questo, qualcuno che riuscisse a non essere indigesto alla sinistra e contemporaneamente risultasse accettabile per i moderati di centro. Kerry sembrava perfetto, anche perché è stato un eroe di guerra in Vietnam, al contrario di Bush. Finché si è potuto nascondere, il senatore del Massachusetts è andato bene, ma era Bush che andava male non lui a convincere gli elettori.
Una volta che la campagna elettorale è entrata nel vivo, i riflettori si sono accesi anche su Kerry e sono cominciati i guai. Kerry fa parte dell’élite di sinistra del paese, e questo non aiuta a prendere voti nel midwest o nel sud. Ha studiato in Svizzera e a Yale, parla francese e anche qualche parola di italiano. Sua moglie Teresa Heinz, la monopolista del ketchup, per fargli un complimento dice che sembra francese, ma per mezza America trattasi di insulto. Kerry è alto un metro e novantatrè, fisico asciutto e spalle a spiovere, una voce baritonale e la faccia così lunga da essere perfetta per il monte Rushmore in South Dakota, quello dove sono scolpiti i volti dei presidenti. Ma se aspetto, postura, voce e censo sono certamente presidenziali, Kerry ha sempre quell’aura da patrizio scollegato con il mondo reale. Sembra sempre più a suo agio in eleganti località di montagna a sorseggiare grandi vini rossi francesi da 400 dollari, piuttosto che nell’America rurale con una diet coke in mano.
In campagna elettorale questa distanza si sta notando. Invece di parlare dei suoi piani su Falluja, Kerry ha sprecato l’estate a raccontare il suo eroismo sul Delta del Mekong, in Vietnam, solo per apparire forte e credibile come comandante in capo. E’ andata male. Il suo curriculum è stato messo in dubbio, e non reggeva al confronto del Kerry pacifista che, tornato in patria, accusò i commilitoni di aver commesso crimini contro l’umanità.
Oggi Kerry sta giocando l’ultima carta, ha iniziato a criticare duramente il presidente sulla gestione dell’Iraq. E nel primo confronto diretto con Bush è andato bene.
Kerry non è nuovo a vittorie al fotofinish, ma il paradosso è che più parla della drammaticità della situazione in Iraq, più gli americani si schierano col presidente. Kerry, infatti, è visto come un politico che non prende decisioni chiare, qualità necessaria in tempo di guerra. Dà l’impressione di voler tenere insieme ogni cosa, i liberal e il centro, i laici e i religiosi, i pacifisti e i falchi. La sua indecisione è proverbiale, e i suoi sostenitori faticano a farla passare come un’attenzione ai dettagli o come una raffinata ricerca della sfumatura.
I comici televisivi sono andati a nozze con i suoi ondeggiamenti. Quando ha incontrato il candidato pacifista Ralph Nader, il più popolare comico tv d’America, Jay Leno ha commentato: "Oggi si sono visti Kerry e Nader: le due posizioni contrapposte sulla guerra sono state messe a confronto. Poi ha parlato Nader". Quando Kerry s’è fatto fotografare a bordo di un windsurf, sempre Jay Leno ha detto: "Vedete, anche i suoi hobby dipendono da dove tira il vento". Su ogni argomento Kerry ha tre posizioni: sì, no, aspettiamo-un-po’-e-vediamo-che-succede. Non trova mai un lato di una questione che non gli dispiaccia. E’ un pregio per un senatore che deve valutare emendamenti e saper trattare con i colleghi, certo non è il massimo per un candidato che deve dimostrare di saper prendere decisioni immediate nel chiuso dello Studio Ovale. Si dice che sia proprio questo uno dei motivi per cui gli americani non eleggono mai un senatore alla Casa Bianca. L’eccezione più recente però è favorevole a Kerry. Nel 1961, infatti, un senatore diventò presidente. Era cattolico come Kerry, era di Boston come Kerry e aveva le stesse iniziali di Kerry: Jfk. Ma John Forbes Kerry non è John Fitzgerald Kennedy.
8 Ottobre 2004