Camillo di Christian RoccaVoices of Iraq,il documentario che non vincerà a Cannes

New York. No, non vincerà il Festival di Cannes questo film girato da oltre 2000 iracheni nel loro paese liberato dal torturatore in capo, Saddam Hussein. Né sarà allegato all’Espresso. "Voices of Iraq" a malapena si può vedere in un’unica sala di Manhattan, nel Lower East Side, senza pubblicità, annunciato da imbarazzate recensioni dei giornali liberal e di conseguenza con soltanto otto persone paganti allo spettacolo delle 18 di giovedì. Eppure si tratta di un documento straordinario, la cosa di gran lunga migliore che sia stata prodotta sull’Iraq dal giorno dell’invasione. Il motivo è semplice: il film fa vedere cose che i giornalisti sul campo non potevano (o non volevano) vedere. E’ girato infatti da iracheni, non ci sono attori se non cittadini comuni iracheni, le voci sono soltanto di iracheni, le case, le facce, i problemi e le speranze sono irachene e per la prima volta parlano da sole. L’idea geniale è venuta a Eric Manes, Martin Kunert e Archie Drury, due registi e un ex marine elettore dei democratici. I tre hanno distribuito 150 telecamere digitali in giro per l’Iraq, chiedendo agli improvvisati registi di provare a raccontare la vita del dopo Saddam, i problemi della sicurezza, i dolori causati dall’occupazione, il dramma del passato e la speranza nel futuro democratico. Le videocamere hanno girato in lungo e in largo l’Iraq e sono tornate con 400 ore di filmati, ridotti a 80 minuti nella versione finale. Fanno girare la testa, visto che le immagini non sono state catturate da professionisti. Ma la testa gira molto di più quando compaiono i video delle torture che facevano divertire i figli di Saddam: lingue mozzate, mani tagliate, teste sgozzate. La vergogna di Abu Ghraib fa quasi ridere, dicono alcuni torturati da Saddam. Uno dice: "Non era mai successo nella storia del mondo arabo che un governo si scusasse per quello che ha fatto".
Il film non è a senso unico. Si sentono voci di giovani che vorrebbero il ritorno del dittatore perché garantiva la sicurezza. Il dramma delle stragi è presente, spesso le immagini sono interrotte dai colpi di mortaio. Un ragazzo dice che non credeva potesse essere così difficile e preferirebbe tornare indietro. Una bambina orfana mostra le ferite sul corpo causate dal fuoco americano a un check point. Ci sono anche i video dei seguaci di Saddam che invitano al jihad, chiedono ai vicini di unirsi nella lotta e ringraziano il dittatore siriano Bashar al Assad dell’aiuto fornito. Poi però ci sono le immagini di festa, la vita quotidiana simile a quella di qualsiasi altro posto del mondo, le feste di laurea, i compleanni dei bambini, i fan di Schwarzenegger, le strade piene di gente, i mercati vocianti, i negozi alla moda, gruppi rock che suonano nei garage, la fine del genocidio degli arabi delle paludi. Tutto questo mentre sullo schermo scorrono i titoli dei giornali occidentali che raccontano di iracheni che hanno paura di uscire, di città deserte, di coprifuoco, di scenari apocalittici. Le voci dell’Iraq dimostrano che non è vero o, quantomeno, che esiste un altro Iraq sconosciuto. "Voglio solo che fuori di qui vedano i nostri sorrisi", afferma un ragazzo. "Da grande voglio diventare americano", dice un bambino. Un professore dice ai pacifisti che "Saddam faceva una guerra quotidiana al suo popolo" e spiega che chi si è opposto alla sua destituzione ha sostenuto questa guerra lunga 24 anni. Un altro non si capacita del fatto che in Francia ci sia gente che difende i diritti degli animali, ma se ne frega degli esseri umani residenti in Iraq. Il film mostra un popolo liberato e ottimista. E’ pro Iraqi Freedom, ma gli oppositori farebbero bene ad ascoltare queste voci. Esistono.

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