Roma. David Brooks è un neoconsevatore moderato, dal volto umano, nonché editorialista del New York Times, cioè del più influente quotidiano liberal del mondo. Joshua Muravchik è un neocon più falco, uno degli analisti dell’American Enterprise Institute, il centro studi di Washington dove sono state elaborate alcune delle idee dominanti oggi in America. Brooks e Muravchik partecipano, insieme ad altri relatori, al convegno sull’antisemitismo organizzato oggi a Roma dall’Anti-Defamation League, con la collaborazione del Foglio e del ministero degli Esteri italiano.
Con Il Foglio hanno parlato del secondo mandato di George W. Bush, della politica in Medio Oriente, della religiosità dell’America e di molte altre cose. "Sulla politica estera ha detto David Brooks non c’è nulla che possa dividere più della decisione di invadere l’Iraq. L’Iran e la Corea del Nord sono pericoli molto più condivisi dalla comunità internazionale. La differenza del secondo mandato sarà sulla politica interna. Nei due anni successivi all’11 settembre, Bush si è interessato soltanto alla politica estera. Il suo discorso sullo Stato dell’Unione 2002 era per metà sui temi esteri e per l’altra riguardava le vicende interne. Quando ho detto a un assistente di Bush che mi ero quasi addormentato mentre leggeva la parte di politica interna, lui mi ha detto di non preoccuparmi perché anche il presidente si era addormentato. Adesso invece l’atteggiamento è cambiato". Secondo Brooks, Bush sa che ci sono questioni che ora dovrà necessariamente affrontare, "quelle che voi europei conoscete bene", come per esempio quella di una società che invecchia, insomma la riforma delle pensioni e della previdenza sociale.
"Su questi temi Bush si impegnerà molto, ma avrà bisogno di uno stile diverso. Resterete sorpresi. Se ci fate caso è già un po’ cambiato il modo in cui parla. Prima Bush era soltanto assertivo nei discorsi, esprimeva posizioni e basta, quasi non argomentava. Ora comincia a fare il contrario, perché deve cercare il sostegno dei democratici e di una parte del suo stesso partito che non condivide quelle posizioni".
Diverso è il caso della politica estera. Brooks spiega che "la politica estera è condotta dal presidente. Durante il primo mandato Bush prendeva le decisioni dopo aver ascoltato i diversi punti di vista dentro il governo. Ma questa filosofia dice Brooks va bene nel mondo degli affari, dove se si prende una decisione quella è. In politica è diverso, si discute sempre. Ed è successo che nonostante il presidente avesse preso una decisione, il Dipartimento di Stato e la Cia non abbiano mai smesso di pensare il contrario. Questo è stato il principale fallimento del primo mandato di Bush: aver preso delle decisioni che nessuno ha voluto eseguire. Ora Bush non vuole far altro che controllare il suo governo".
Joshua Muravchik dice che non bisogna dimenticare che nel primo mandato Bush ha dovuto sopportare "il fardello" della sconfitta nel voto popolare contro Al Gore: "Tutti gli contestavano la legittimità dell’elezione". Secondo l’analista dell’American Enterprise ora il tono è diverso: "Mi sembra che Bush abbia molta più fiducia in se stesso e che sia più rilassato. Il suo programma di politica interna avrà certo bisogno di una cooperazione bipartisan, ma in politica estera non potrà che ricevere benefici dall’uscita di Colin Powell. Il segretario di Stato non aveva soltanto idee differenti da Bush, ma anche un certo seguito nel partito. E questo ha pesato". Secondo Brooks, negli ultimi due anni, "le cose non hanno proprio funzionato, tanto che il presidente egiziano, Hosni Mubarak, ha chiesto al senatore Bob Graham di non inviare Powell in medio oriente, non perché non si fidasse di lui, ma perché sapeva che Powell non parlava con la voce di Bush. Con Condoleezza Rice ovviamente sarà diverso".
Dice Muravchik: "Bush è stato molto criticato dagli europei, dai governi arabi e anche in America per non essersi impegnato nel conflitto mediorientale, ma in questo momento si può dire che il suo approccio è stato di grande successo. Improvvisamente ci troviamo in una situazione in cui c’è la più seria speranza di raggiungere la pace dai tempi di Camp David. In parte per la morte di Arafat, ma certo non ci saremmo trovati in questa ottima situazione se Bush avesse speso gli ultimi quattro anni a cercare un accordo con Arafat, come fece Clinton. Le cose sono andate esattamente come le ha immaginate Bush. Isolando Arafat, i palestinesi hanno dovuto cercare un’alternativa al rais. E ora c’è Abu Mazen".
Muravchik è ottimista, anche se si rende conto che questa parola è "davvero molto forte da pronunciare per quella parte del mondo". Brooks ricorda come il voto in Afghanistan, la rielezione di Bush e le due consultazioni di gennaio in Palestina e in Iraq facciano parte dello stesso filone: "Riuscire in questa impresa è un evento enorme". In fondo, continua Brooks, poco importa che alla Casa Bianca non abbiano un piano per il dopo elezioni, perché "a quel punto le decisioni riguarderanno gli iracheni, il nuovo governo eletto. Sovranità vuol dire questo. Gli americani faranno quello che chiederanno di fare gli iracheni". Anche Brooks è ottimista, specie se l’ayatollah Alì Al Sistani confermerà la sua profonda fiducia nella democrazia.
Brooks è un attento osservatore della rivoluzione in corso dentro il partito repubblicano. Prima con un saggio del 1997 sul Weekly Standard e poi quest’estate con un lungo articolo sul magazine del New York Times: "Nel 1997 i repubblicani erano contrari all’intervento in Kosovo, ed erano poco interventisti anche in politica interna. Bush veniva da quel mondo, ma ha finito per fare una politica opposta. Il cambiamento, certo, è stato imposto dall’11 settembre" ma secondo l’editorialista, è partita una rivoluzione epocale all’interno del Grand Old Party. I repubblicani non sono più il partito ideologicamente contrario all’intervento dello Stato. Sono diventati gli alfieri del governo limitato, ma forte. Che interviene poco, ma in maniera decisa.
Nel libro "On Paradise Drive. How we live Now (And always have in Future Tense)", Brooks ha raccontato le periferie suburbane americane. Proprio lì, nelle contee a più veloce crescita demografica, hanno messo radice e sono sbocciati i più autentici valori della tradizione americana, come il desiderio per la trascendenza, la profondità spirituale, la coesione morale. Valori condivisi da tutti, liberal e conservatori. "Oggi dice Brooks in America si discute di leadership, del modo di guidare un paese. Tra i democratici, da Kerry a Gore a Clinton a Dukakis, c’è uno stile costante: gente colta, esperta, che sa esprimere tutte le sfumature possibili per comprendere la complessità del mondo. I repubblicani, invece, da Reagan a Bush non mettono mai l’accento sulla complessità, piuttosto su valori semplici e solidi". Secondo Brooks, "non esistono due Americhe, non siamo un paese diviso in due culture rivali. Condividiamo lo stesso modello di vita. Semplicemente discutiamo su chi sia più adatto a guidare il paese: chi è incline alla complessità o chi ha fede nelle cose che ha fatto nella vita". Muravchik è d’accordo ma riconosce alla religione un ruolo di primo piano. Anzi spiega con la "paura della religiosità di Bush", l’opposizione e lo sconcerto di tutti quegli intellettuali liberal che all’indomani delle elezioni "sono caduti vittima di un collasso nervoso, scrivendo editoriali sulla fine dell’illuminismo e sul jihad cristiano lanciato da Bush".
Secondo Brooks, "molti fraintendono la religiosità del presidente. Ignorano che Bush si è formato in un piccolo gruppo di evangelici assai più vicino agli Alcolisti Anonimi che ai fondamentalisti cristiani. E’ un uomo di fede, un protestante che in fatto di cultura della vita ha assorbito molto della dottrina cattolica. Ma la sua religiosità non si riflette sulla sua politica, né in politica estera né in politica interna. E’ un liberale, non vuole giudicare le persone. Non sarebbe neanche intervenuto sui matrimoni gay se non fosse stato costretto dalla sentenza del Massachusetts e dai suoi consiglieri politici, i quali hanno visto nell’attivismo dei giudici un’opportunità politica da sfruttare". Sull’aborto, dice Brooks e conferma Muravchik, Bush non ha mai spinto per renderlo illegale: "Su questi temi, se ci pensate, Bush è molto più a sinistra dei leader europei". Infatti il divieto di "nascita parziale" introdotto da Bush all’inizio dell’anno, in Italia è vietato da sempre. Mentre le adozioni gay, aggiunge Muravchik, le stesse che vorrebbe introdurre il premier spagnolo Zapatero, in America sono possibili. Ma nell’analisi sociale, Muravchik sfuma i toni: "In termini di pratica religiosa, la proporzione di gente che crede in Dio e va a messa, in America è quasi il doppio rispetto a molti paesi europei. In termini di valori, noi americani dobbiamo fare i conti con un investimento di tipo religioso nel civismo e nella politica. Forse la principale differenza con l’Europa sta nel fatto che per noi la politica estera tocca direttamente la dignità umana, la libertà dell’individuo, la democrazia".
Brooks non è d’accordo con il suo grande amico Robert Kagan quando sostiene che si tratta di una questione di rapporti di potere: "Penso che la divisione tra l’Europa e l’America implichi una più profonda definizione della natura umana. Ricordo l’atteggiamento che avevano molti paesi europei all’inizio degli anni 90, all’epoca del trattato di Maastricht. Lavoravo a Bruxelles, e non riuscivo a capire come mai gli europei si ostinassero a tenere il trattato fuori dal voto. L’America sarà anche un paese ingenuo, ma ripone una fiducia assoluta nelle elezioni. Fanno parte del nostro dna".
Muravchik sta scrivendo un libro sull’Onu: "Le Nazioni Unite sono fallite completamente, se si considera il motivo per cui sono nate: difendere la pace e la sicurezza internazionale. Credo che il fallimento sia irreversibile. Le proposte di riforma presentate nei giorni scorsi non risolvono nulla. Una parte del lavoro dell’Onu va preservata, anzi rafforzata, ed è quella che riguarda gli sforzi umanitari. Ma il Consiglio di sicurezza e l’Assemblea generale andrebbero aboliti e, come sostengono i due liberal Ivo Daalder e James Lindsay, magari sostituiti con una nuova alleanza delle democrazie".
16 Dicembre 2004