Milano. Oggi e domani a Orlando, in Florida, il Partito democratico americano cercherà di riflettere sulle ragioni della sconfitta del 2 novembre. Sul palco si alterneranno leader, deputati, senatori e anche quattro o cinque aspiranti alla carica di presidente del Comitato nazionale. A febbraio i 477 membri del Comitato sceglieranno il successore di Terry McAuliffe, l’uomo che ha guidato il partito in questi quattro anni. Fosse soltanto un problema di uomini e di cariche, sarebbe tutto molto più semplice. Seppure sconfitto da George W. Bush nelle ultime tre elezioni nazionali, il partito democratico oggi può contare su un vivace movimento di base, su un bottino di voti mai stato così ampio e su una capacità di raccogliere finanziamenti superiore a quella dei repubblicani. Il problema, però, è che i Democrats non hanno un’idea forte né una strategia; non scaldano i cuori né risultano affidabili sulla sicurezza nazionale. Manca la "vision thing". I clintoniani del Democratic Leadership Council hanno già denunciato il deficit di credibilità del partito, un partito che peraltro non è più nazionale, come aveva detto per tempo l’ex senatore della Georgia, Zell Miller. "Non si può condurre una campagna elettorale soltanto in diciotto Stati", ha confermato Howard Dean, oggi pronto a candidarsi alla guida del partito per spostarlo più a sinistra.
Peter Beinart ha scritto un breve saggio che in questi giorni sta facendo discutere gli intellettuali e i politici democratici. Secondo il direttore di New Republic, settimanale liberal, il partito dovrebbe essere più falco, un’idea che fa rabbrividire Dean: "Ogni volta che perdiamo un’elezione, quelli che prendono le decisioni dentro il partito dicono che il modo per vincere le elezioni è somigliare di più ai repubblicani. Lo abbiamo già provato. Non funziona".
Quelli di MoveOn.org, il gruppo di militanti liberal che nell’ultima campagna ha mobilitato centinaia di migliaia di persone e poi raccolto trecento milioni di dollari per Kerry, ha chiesto ai "professionisti delle sconfitte elettorali" di mettersi da parte: "Ora il partito è nostro. Lo abbiamo comprato, ce lo prendiamo". Secondo Beinart, MoveOn è una disgrazia per il partito: mentre i democratici perdono le elezioni perché non si rendono conto della "realtà politica" costituita dalla minaccia islamica, il partito parla con la voce di chi si è battuto contro la guerra in Afghanistan.
George Lakoff, professore a Berkeley vicino ai democratici, ha ragionato su un altro aspetto: i liberal hanno perso la battaglia sulle idee e, soprattutto, devono rinnovare il linguaggio se vogliono avere qualche speranza. Secondo Lakoff, autore del libro "Don’t Think of an Elephant: Know your values and frame the debate", i repubblicani hanno centri studi che sfornano idee in continuazione che poi vengono facilmente propagandate dai politici del partito. Parlano di valori morali, di conservatorismo compassionevole, di protezione dei non nati e il messaggio arriva. La risposta dei liberal è fiacca, stanca, periferica, perdente, dice Lakoff. "I Democratici devono essere chiari sul messaggio, devono cercare una visione condivisa, esprimerla bene e non cambiarla in corsa". Invece di parlare di "debito pubblico" dovrebbero dire che si tratta di una "baby tax" che il presidente ha imposto alle generazioni future; invece di matrimonio omosessuale dovrebbero parlare di "diritto a sposarsi". Guai, infine, a parlare di protezione ambientale, molto meglio usare "comunità senza veleno".
11 Dicembre 2004