Milano. Judith Miller è uscita di galera. L’unica notizia certa di questa ingarbugliatissima, affascinante e forse un po’ ridicola storia americana è questa: la giornalista del New York Times, reclusa dal 6 luglio in un carcere della Virginia per ostruzione alla giustizia, da giovedì sera è una donna libera. Era stata arrestata perché rifiutava di testimoniare nel caso politico-spionistico noto come “Cia-gate”. A sorpresa, poche settimane prima della scarcerazione, ieri Miller si è presentata davanti al grand jury federale che indaga per scoprire se l’Amministrazione abbia fatto trapelare ai giornali il nome di Valerie Plame, un’analista della Cia la cui identità forse era segreta, forse no.
Tutto il resto è un mistero, a cominciare dalla natura del reato. Se è vero, infatti, che svelare il nome di un agente segreto è un reato federale, diventa più controverso se l’analista Cia in questione ha un lavoro d’ufficio, timbra il cartellino a Langley ed è notoriamente sposata con un diplomatico del dipartimento di Stato. Il caso nasce dal viaggio in Niger dell’ex ambasciatore Joe Wilson, il marito di Valerie Plame. Democratico, sostenitore di Al Gore e successivamente finanziatore di John Kerry, Wilson fu inviato in Africa dalla Cia per valutare la veridicità di un rapporto di intelligence che raccontava di un tentativo di compravendita di uranio da parte di Saddam. In 8 giorni Wilson incontrò i leader del regime nigerino, i quali un po’ negarono e un po’ no. Wilson tornò a Washington, fece rapporto, confermò che un tentativo saddamita ci fu ma che, personalmente, lo reputava di improbabile realizzazione. Alcuni mesi dopo, il 6 luglio 2003, con un articolo sul New York Times Wilson accusò la Casa Bianca di aver falsificato le prove sulle armi di Saddam. Raccontò del viaggio in Niger, scrisse di non aver trovato alcuna prova dell’acquisto di uranio e di essere certo che il suo rapporto fosse arrivato a Bush. Lo scandalo consisteva nel fatto che, nel gennaio 2003, Bush aveva inserito 16 parole nel discorso sullo Stato dell’Unione che accusavano Saddam di aver cercato di acquistare uranio in alcuni paesi africani (“cercato” non “acquistato”; “in alcuni paesi africani” non in Niger). Una settimana dopo la denuncia di Wilson, Bob Novak, un editorialista conservatore ma contrario alle campagne mediorientali di Bush, scrisse un articolo in cui spiegava come la missione di Wilson fosse stata decisa dalla moglie, l’agente Cia Valerie Plame. Novak si era chiesto per quale motivo i bushiani avessero scelto per una missione così delicata un liberal anti Bush. La spiegazione era questa: non l’avevano scelto loro, era stato selezionato dalla moglie, da un’analista Cia che non credeva al pericolo saddamita. Secondo Wilson, invece, i bushiani si erano vendicati della sua denuncia svelando, quindi bruciando, l’identità segreta di sua moglie.
Una spiegazione poco convincente
Judith Miller, 57 anni, era finita in galera nonostante non avesse mai scritto una riga su questa storia. Nessuno ha mai ben compreso il motivo della sua reclusione né il perché del suo rifiuto di prestare testimonianza. Ufficialmente invocava il diritto-dovere giornalistico di non svelare le proprie fonti, nonostante l’identità della sua fosse già conosciuta, nonostante Bob Novak avesse tranquillamente testimoniato e così gli altri giornalisti. La fonte di Miller è Lewis Libby, il capo dello staff del vicepresidente Dick Cheney. Quella di Novak al momento è un segreto che conosce soltanto il magistrato, ma come ha scritto successivamente lo stesso Novak è una doppia fonte governativa “non di parte”, quindi né Libby né Karl Rove. A suo tempo, Libby aveva testimoniato di aver appreso il nome di Valerie Plame soltanto dall’articolo di Novak pubblicato il 14 luglio 2003 e di aver saputo solo successivamente che l’identità della donna potesse essere segreta. Qualche giorno prima, l’8 luglio, Libby aveva incontrato Miller e le aveva detto che il viaggio di Wilson in Niger non era stato deciso dalla Casa Bianca, ma dalla Cia, anzi dalla moglie di Wilson. Sempre un anno fa, Libby aveva liberato per iscritto Miller dal vincolo etico di non svelare l’identità della sua fonte, cioè di fare apertamente il suo nome, ma la giornalista non se ne è avvalsa. Ieri ha cambiato idea. In un anno d’inchiesta e in 85 giorni trascorsi in galera non era certa della reale volontà liberatoria di Libby. La settimana scorsa i due si sono parlati al telefono, se n’è convinta e ha trovato un accordo col giudice per testimoniare solo sull’incontro con Libby. Restano dubbi: forse Miller temeva una proroga della reclusione o forse c’è altro. La prossima settimana la giuria dirà se è stato commesso un reato o se il Cia-gate è un nada-gate.